Venerdì, 29 Marzo 2024

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Il vocabolario del dialetto castellano

Libri. Recensione a cura di Ambra Bambini.

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Con questo lavoro (curatissimo, poliedrico e ricco di rimandi) Francesco Grilli ha offerto un notevole contributo alla vivacità culturale e linguistica della nostra gente e del suo territorio. Si tratta, del resto, di un impegno durato ben trentacinque anni, ma è davvero cosa inusuale poter leggere, e studiare, un vocabolario con la stessa gioia e trepidazione con cui si affronta un romanzo. Si tratta senza dubbio di un’innovazione letteraria – non soltanto cittadina – l’idea, concretamente realizzata, d’un vocabolario da leggere e non semplicemente da consultare a tempo perso per mera curiosità o necessità di un momento.

Certo, dentro un vocabolario deve esserci un mondo; ma qui – se possibile – c’è anche quello che non può essere scritto: un grande ed appassionante racconto della vita castellana, di una città non grande che è stata definita giustamente, ad un certo punto della sua storia, Castrum Felicitatis.

Nel testo, infatti, troviamo un po’ di tutto: l’accuratezza dei termini con la loro trascrizione fonetica e una varietà straordinaria di sinonimi, le espressioni gergali più diffuse – com’è ovvio – ma anche la rappresentazione, a volte spassosa e birichina, di personaggi conosciuti da tutti, la descrizione dei rioni e dei luoghi più conosciuti, la toponomastica popolare del Tevere, le pietanze della cucina locale, i lavori nei campi e nell’aia (aratura, semina, mietitura, trebbiatura, ecc.), gli utensili del mondo artigiano, la flora e la fauna, individuate con l’esatto termine in lingua e denominazione scientifica. Così, tanto per evitare equivoci. Chi sapeva, ad esempio, che la proverbiale “fatabia” (l’uccello con fama di menagramo) si chiamasse in realtà Succiacapre (Caprimulgus europaeus) e il “gògiolo”, tipico pesciolino del nostro fiume, fosse il ghiozzo (Padogobius nigricans)?

Spesso appaiono nel testo filastrocche, cantilene, proverbi e modi di dire diffusissimi e molte sono le citazioni (sempre pertinenti) di autori, filosofi, storici e poeti antichi e moderni. In ogni caso, tra le espressioni più divertenti che ho trovato, voglio citare le seguenti: ampiaccherè (lordarsi); ampanzanì (avere e far venire la pancia gonfia per il troppo bere o mangiare); anguastì (inferocirsi, dannarsi); ’m bóm póco (molto, tanto, assai); papagna (schiaffo sonoro); schèggia (persona originale, bizzarra e simpaticaccia); sorgnabòrgna (finto tonto, gatta morta); squaquajèta (risata grassa e volgare); a zzordolóni (a bighelloni).

Il “Vocabolario del dialetto castellano” ha permesso di centrare un obiettivo ancora mancante, conferendo finalmente ufficialità e sistematicità al dialetto locale nella sua compagine lessicale e, in ampia misura, anche grammaticale.

Prima di terminare vorrei ringraziare l’Autore per aver citato mio padre Amleto (Amelèto) a proposito delle divertenti “zingarate” messe in atto da lui e dai suoi amici. Si tratta, tuttavia, di personaggi che, in qualche modo, hanno ben rappresentato il folklore e l’indole sociale della Città. E Francesco non si è dimenticato di loro. ◘

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