Istruzione a proposito di scuola ed educazione.
Viviamo un tempo complicato ed entusiasmante. La guerra e l’aumento del costo della vita, l’incompatibilità del vivere umano con la sopravvivenza del pianeta, l’inaccettabile aumentare di diseguaglianze in ogni forma; e poi le migrazioni forzate dentro e fuori dai confini dei Paesi.
E poi esiste un’umanità che dentro queste crisi continua a seminare, intrecciare possibilità, tessere qui e ora le forme di una vita dignitosa, comunitaria, egualitaria, ecologica. Lo fa nelle nostre periferie e nei meandri distanti del mondo, in luoghi visibili ma soprattutto nelle ombre e nel rumoroso silenzio della vita quotidiana. Tutto questo entusiasma: qui e ora siamo al lavoro per ricucire; qui e ora siamo operativi per dare vita non solo a esistenze degne e contesti di speranza, ma per generare una vera e propria rivoluzione delle coscienze, delle strutture, dei modi di vivere, che è la sola a poterci salvare. Come individui, come specie.
Cosa significa, oggi, essere buoni educatori o educatrici? Quali sono le urgenze e le emergenze educative del nostro tempo, rispetto alle quali ogni singolo e comunità ha bisogno di prendere posizione? Dal mio piccolo osservatorio di educatore di strada e pedagogista itinerante riscontro tre grandi emergenze educative. Non sono le uniche e sicuramente non esauriscono lo spettro di problematicità che ogni contesto vive. Sono tre direttrici problematiche, connesse a quell’orizzonte della catastrofe che descrivevo all’inizio.
L’individualismo.
I nostri contesti sono fortemente attraversati da logiche che frammentano gruppi e comunità, focalizzando lo sguardo, la parola, i desideri, le possibilità in un’ottica fortemente individuale. Che si guardi alla fabbrica o a una scuola primaria, che si ascolti la tv o il chiacchierare di un gruppo di genitori, è possibile notare che si pensa alle persone sempre in un’ottica individualizzante: si parla di responsabilità individuale, di merito e di colpe, ma anche di competizione o concorrenza, di premi e di capacità (entrambi, rigorosamente, rivolti al singolo). C’è un enorme avanzamento della logica che vuole che ognuno sia solo e solitario all’interno delle azioni della propria vita quotidiana. Per quanto possa lavorare con altri, avrà obiettivi e valutazioni personali, proprio come uno studente a scuola. Questa logica di individualizzazione viene ancor più rafforzata dalla seconda direttrice problematica.
La prestazione.
Mutuata dall’organizzazione aziendale neoliberale, la logica della prestazione è molto più di un criterio di misurazione del rendimento: essa è un vero e proprio dispositivo educativo, una struttura profonda che modifica il modo di comportarsi a 360 gradi, formando giorno per giorno a un’umanità che si autovaluta, che si autogiudica, che ha dei valori etici legati al rendimento economico e non a principi universali. “Tu sei per quello che vali” questa è la massima assoluta del dispositivo prestazionale, che ti chiede di essere all’altezza dei compiti che qualcuno ti assegna ma anche all’altezza delle pressioni che incontri nella società, pena il rischio dell’esclusione, della bocciatura, del non riconoscimento. La richiesta di rendimento continuativa, nello spazio e nel tempo, agisce e plasma il corpo di ciascuno di noi, smontando tanti valori che sono alla base della convivenza: l’accettazione indiscriminata, la sospensione del giudizio; ma anche il diritto alla diversità, all’errore o alla perdita di tempo. Viene manomessa la convinzione che si valga per ciò che si è: e ognuno di noi è qualcosa di unico, infinito, straordinario. Non sorprende, dunque, che ansia (la continua tensione per raggiungere i propri obiettivi) e depressione (il sentimento di inadeguatezza e mancanza di energie) siano le patologie di massa contemporanee.
Il consumo.
Non serve citare fior fior di sociologi per riconoscere nella logica del consumo qualcosa che alimenta il mondo contemporaneo: siamo circondati da pubblicità e oggetti acquistati, che invadono il nostro spazio non più solo durante la passeggiata del sabato pomeriggio, ma in ogni ora della giornata: ci si incontra nel caffè, ci si fa regalare un viaggio, ci si sfoga acquistando vestiti. Ma consumo significa anche un modo di rapportarsi all’alterità: è la logica del soggetto che utilizza l’oggetto, della persona che si serve strumentalmente dell’altra e poi l’abbandona: in quest’ottica il consumo è l’opposto della cura, del progetto, del solido desiderio che si costruisce poco a poco. Il consumo produce bulimia (altra psicopatologia del nostro tempo), ha a che fare con un meccanismo masturbatorio di appassionamento e crollo del godimento, che richiede nuovi oggetti da desiderare e di cui appropriarsi. È la logica necessaria per consumare ciò che (in eccesso) produciamo e rendere così profittevole il nostro mondo.
Di fronte a queste problematiche, l’educazione che vuole emancipare si trova a un bivio: come pratichiamo una profonda alterità rispetto a queste grandi dinamiche? Come alimentiamo un’umanità che sappia porre al suo nocciolo la relazione tra le persone, fino al generare comunità? Proviamo a individuare alcuni sentieri da percorrere.
Partiamo dai bisogni.
In forme esplicite o distorte, contraddittorie o persino patologiche, i giovani manifestano dei bisogni. Di ascolto, innanzitutto. Di accettazione incondizionata, senza limiti. Chiedono implicitamente luoghi di decompressione, dove non essere giudicati. I giovani di oggi esprimono la fatica della scelta profonda, perché scegliere nella vita appare poi come qualcosa di diverso dall’acquisto di un paio di scarpe. I giovani chiedono compagni di viaggio che siano sostegno ed esempio, manifestando una richiesta di proposte di senso, di appartenenza.
Curare la relazione, diventare comunità.
Focalizziamoci sul valore dello stare insieme, del condividere orizzonti di senso, codici e linguaggi: scambiamoci messaggi e musica da ascoltare, tocchiamoci, facciamo silenzio insieme. La relazione diventa possibile nella sua forma autentica solo quando si libera dalle pastoie dell’autorità e dei ruoli, per lasciare spazio al riconoscimento reciproco e paritario, all’ascolto e alla fiducia, al fare insieme e alla curiosità scevra da giudizi. E poi darci sempre una meta plurale: guardare al noi, che significa portare dentro la relazione il fatto che il mondo ci riguarda, che di quello spazio siamo responsabili insieme, in una classe, in una famiglia.
Gratuità e dono.
Se la meta intenzionale che diamo al nostro camminare è quella del Noi, questa non può che essere riempita da una cultura antieconomica del dono, della gratuità, che è simmetrica al principio per cui il valore della vita nostra, del ragazzo o della ragazza che abbiamo accanto, è infinito. A questa infinità fa da specchio la forza del dono, che assegna valore e al tempo stesso smonta la logica di scambio utilitaristico che abita le nostre vite.
Sulla soglia dei futuri possibili, sta a noi individuare quali strade aride disumanizzano, e quali sentieri invece “in mezzo all’inferno, non sono inferno, e farli durare, e fare loro spazio”,
di Stefano Casullo