Intervista a Filippo Ganapini, missionario comboniano.
Il Sud Sudan è uno degli stati più giovani dell’Africa e ha raggiunto l’indipendenza solo 11 anni fa. Ne parliamo con Filippo Ivardi Ganapini, missionario comboniano che ha fatto esperienza in Centro Africa.
Ci può descrivere il percorso seguito dal paese per conseguire questo obiettivo?
«Quella terra fino al 2011 era la terra del Sudan, dei “neri”. Il Nord è più arabo, formato soprattutto da mercanti e schiavisti, che utilizzavano gli schiavi del Sud. Anche dopo l’abolizione formale della schiavitù nel 1856, questa dinamica ha continuato per molto tempo con continue retate che si facevano nella parte sud, sempre per potersi assicurare gli schiavi e per farli lavorare nella propria terra. Nel 1870 s’insedia un dominio egiziano anche nel Sud che costituisce la provincia equatoriale del Sudan. Nel 1882 c’è stata una rivolta di stampo mahadista che ha destabilizzato tutta quell’area e ha provocato la cacciata degli egiziani».
Ed è subentrato il dominio inglese?
«Hanno conquistato tutto il Sudan, la parte nord e la parte sud, tutta la terra dei Neri. Quando finisce questo dominio coloniale inglese, nel 1956, la terra viene lasciata nella piena instabilità. Nasce un conflitto interno con 64 etnie presenti sul terreno, che si battono per il potere, per la terra, per l’acqua, per il bestiame. Da subito dopo l’indipendenza, il potere politico a livello nazionale viene monopolizzato da un’élite islamica arabizzata del Nord, mentre gli altri sono gradatamente tagliati fuori. Nascono così le prime guerriglie dei popoli del Sud con il loro famoso esercito S.P.L.M., che avrà un ruolo fondamentale per arrivare all’indipendenza. All’interno c’è una leadership denca molto forte, due gruppi etnici maggiori uniti in guerra. Tra i gruppi dei guerriglieri spicca quello del Darfur, nella parte nord, che è sempre stata una terra molto ribelle nei confronti della capitale, e dei gruppi dei Monti Nuba. Ci sono state due guerre civili con 2 milioni di morti e una continua lotta per l’accaparramento del bestiame, con la situazione di bambini soldato, ospedali bruciati, scuole e asili distrutti».
Quali sono state le due tappe fondamentali di questa guerra?
«Il trattato di pace di Addis Abeba e quello di Nairobi, che prevedeva per la prima volta un referendum sull’autonomia del Sud. Nel gennaio del 2011 finalmente si svolse questo referendum con la schiacciante vittoria dei sì. Viene ufficializzato nella data del 9 luglio 2011 proprio con la festa e la dichiarazione di indipendenza. Una libertà che dura poco, perché due anni e mezzo dopo riprende il conflitto non solo tra i due maggiori gruppi, i denca e i nouer, ma coinvolgendo altre etnie provocando oltre 400.000 morti, milioni di persone in stato di insicurezza alimentare, 4 milioni tra profughi e sfollati. Una situazione devastante».
Il Sud Sudan è afflitto da due enormi problemi: la povertà e le lotte tribali. A suo parere, come è possibile affrontarli?
«Sono due i fattori principali, ma non sono gli unici. Il primo è quello dell’insicurezza dovuta ai conflitti intercomunitari per il controllo della terra, dell’acqua, del bestiame. La gente dice: “dobbiamo farci giustizia da soli perché qui non ci difende nessuno”. L’insicurezza ha portato anche ad assalti sulle strade, ai viaggiatori, operatori umanitari. Abbiamo percepito questa insicurezza anche nella Chiesa con la vicenda del Vescovo. È una violenza tra etnie e una lentezza dell’operatività degli accordi di pace firmati a Roma. È un processo ancora molto lento, che prevedeva un cammino di unità dell’esercito, integrando i soldati dei vari gruppi di ribelli. L’inserimento però lascia molto molto a desiderare».
Assistiamo un mal governo che favorisce la corruzione?
«Le varie etnie al potere si accaparrano di risorse dello Stato. Secondo fonti dell’ONU sarebbero stati sottratti dalle risorse statali 73 milioni di Euro, e questo da parte di politici, militari, uomini d’affari, mentrel a popolazione è allo stremo e 8 milioni di persone hanno bisogno di sostegno. Anche le armi che circolano nella gran parte del Paese costituiscono un problema, come le relazioni difficili con il Sudan. C’è una serie di fattori che determinano una grandissima instabilità.
Questo paese ha bisogno, prima di tutto, di una riconciliazione a livello nazionale, fondata sulla verità e sulla giustizia. Inoltre si tratta di formare la nuova leadership del Paese, non più su base etnica, ma su una visione fondata sul bene comune. Occorre anche ristrutturare l’organizzazione dello Stato sulla base della trasparenza e fare di tutto per andare al voto prima possibile. Queste sfide devono essere accompagnate dalla comunità internazionale, dalla società civile e anche dalle chiese. I settori dell’educazione, della sanità sono stati molto trascurati in questi lunghi anni di conflitto. Intere generazioni hanno vissuto solo nella guerra e ne hanno subito i traumi anche a livello psicologico. Questi punti mi sembrano fondamentali per poter almeno orientare il Paese verso una vera svolta».
La presenza di papa Francesco è un simbolo di riconciliazione e di pace in questo Paese martoriato da continue guerre tribali. L’incontro con i rappresentanti delle varie chiese cristiane con il Papa può rappresentare davvero un nuovo inizio?
«La presenza del Papa ha avuto un’altissima carica simbolica ed è stata un’iniezione di Vangelo.Ha chiesto ai leader di essere dei padri e di non essere padroni, di avere davvero a cuore il futuro del Paese. Questo passaggio non è passato inosservato. Credo che abbia bisogno di tempo per essere digerito e possa rappresentare un nuovo inizio. La prima condizione per la comunità cristiana è la centralità del battesimo. Finché le persone si identificano prima di tutto con il loro gruppo etnico e non si sono rivestite in Gesù di Nazaret, non c’è scampo. A un certo momento c’è anche la prospettiva del martirio per chi abbraccia una nuova vita. Penso a una famiglia che non tiene conto del proprio interesse e non guarda all’altro con aria minacciosa come se fosse il nemico. In sostanza serve una rivoluzione evangelica. La seconda condizione è che il Vangelo prevalga su tutto, anche per esempio sul culto della Vacca che rappresenta la vita per gli africani. I valori proposti da Gesù, la pace, la riconciliazione, la fratellanza, la giustizia devono prevalere sull’interesse economico, sull’idolatria del potere, sul desiderio di mettere le mani su tutto quello che è possibile. È un cammino lungo ma non impossibile».
È possibile per il Sud Sudan uno sviluppo diverso da questo studiato dalle agenzie internazionali?
«È doveroso pensare che questo paese abbia uno sviluppo endogeno, a partire dal proprio stile, dal loro modo di vivere, di abitare il territorio. La vedo però come una possibilità fragile. Tutto il settore trainante è l’economia informale, che non passa attraverso i canali istituzionalizzatidella domanda e dell’offerta. Purtroppo tutti questi settori dell’economia informale stanno seguendo, più o meno, la logica del mercato. Innanzitutto per l’appetito delle multinazionali che continuano a saccheggiare il Paese con un atteggiamento predatorio. L’altro aspetto significativo è il fascino della ricchezza sulle popolazioni locali, desiderare di accumulare potere e ricchezza. È un tipo di sviluppo di stampo neoliberista. Anche la presenza di numerosi organismi umanitari sta provocando delle dinamiche che non aiutano a crescere. A volte c’è la tentazione di chiedere sempre con la mano tesa perché l’aiuto arriva da fuori».
Lei pensa che la presenza delle donne in Sud Sudan possa costruire un grande impulso per trasformare il Paese? Perché?
«Potrebbe e dovrebbe essere così. Nella parte nord, quello che oggi è il Sudan, la presenza delle donne è stata fondamentale, tanto di far cadere il governo.
In Sud Sudan la situazione è diversa sia a livello culturale cheeducativo. È una realtà patriarcale, maschilista, dove vige la poligamia, dove il ruolo dell’uomo è centrale. Per cambiare davvero le cose ci vorrebbe una forte sensibilizzazione sul ruolo delle donne.
Occorre promuovere l’educazione femminile perché le ragazze possano andare a scuola, lottare contro il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, impedire i matrimoni forzati precoci. Questo ostacola la loro crescita umana ed educativa.» ◘
Di Achille Rossi