Intervista a Nello Scavo, giornalista, inviato del giornale "Avvenire", scrittore.
La Libia è l’hub più importante dei flussi migratori dall’Africa verso l’Europa, una centrale del crimine che irradia tutto il Mediterraneo e che continua a prosperare sulle spalle dei migranti e dei governi europei. Ne parliamo con Nello Scavo, giornalista de “l’Avvenire” che ha studiato da vicino questo problema, prendendosi anche dei rischi personali e da più di un anno vive sotto scorta.
I flussi dall’Africa, a parte la tragedia di Cutro, hanno ripreso senza sosta. Cosa sta succedendo?
«Alcuni giorni fa è stato fermato all’aeroporto di Parigi il Ministro degli Interni di Tripoli Iman al Trabelsi con una borsa contenente più di mezzo milione di euro. Prima di diventare Ministro era un autotrasportatore: ha fatto carriera dentro un clan libico, ha costituito una sua milizia, negli anni ha accresciuto il suo potere, a meno di 40 anni è diventato uno degli uomini più potenti in Libia. Da tempo lo abbiamo indicato come un personaggio tra i più pericolosi e, nonostante questo, l’Italia ha confermato il Memorandum d’intesa con la Libia»
Quali sono le conseguenze?
«Che in Libia persiste un sistema criminale di gestione del potere e questo schema tiene sotto scacco l’Europa e l’Italia, che così è legata mani e piedi alla criminalità libica. Le istituzioni ne sono a conoscenza, ma continuano a stringere la mano a questo signore.
C’è una sola differenza tra quello che è accaduto in Libia e quello che è accaduto in Calabria: a Crotone gli immigrati sono morti vicino alle spiagge, e fanno notizia. In Libia muoiono in alto mare nel disinteresse generale. Di moltissime stragi non sappiamo nulla. Finché i cadaveri non arrivano sulle coste non lo consideriamo un nostro problema, anche se noi finanziamo la causa di queste morti».
Come può un gruppo di criminali tenere sotto scacco un intero continente?
«In realtà questi criminali tengono sotto scacco le carriere dei politici: la compagine di governo attuale in Italia, in passato i governi Conte e Salvini. Questi politici sono arrivati al Governo facendo campagne elettorali contro i migranti. Per questo, dopo il loro insediamento, l’arrivo dei barconi e degli sbarchi di migrati aumenta d’intensità. È come se i criminali dicessero ai politici “ricordati che la tua carriera dipende da me”, perché o si obbedisce o i flussi di barconi aumentano, dimostrando così che si sta tradendo l’elettorato che li ha votati».
È un meccanismo trasversale ai vari governi che si sono succeduti in questi anni?
«Giorgia Meloni, appena eletta, si è dovuta recare in Libia per firmare un accordo di otto miliardi di finanziamenti per nuove esplorazioni petrolifere. Sono soldi che fanno gola a un sacco di gente. Nelle settimane precedenti c’era stato un calo delle partenze come avevamo previsto, non perché abbiamo la sfera di cristallo, ma perché studiamo questi fenomeni da molti anni, poi il flusso è ripartito. Sono segnali che le varie milizie stanno mandando messaggi al Governo italiano e ai governi europei, e cioè: “di questi 8 miliardi a noi quanto ne viene?”. E allora bisognerà trattare e fare accordi».
Con chi precisamente?
«Il personaggio di riferimento è il Ministro degli interni libico che ha cercato di federare i vari clan e le tribù, le quali sono gestite secondo uno schema mafioso».
Cosa c’è in gioco per loro?
«Intorno a questa partita si sta giocando il futuro dei flusso migratorio verso l’Europa. Quindi i clan hanno bisogno di soldi e di certezze, e più soldi riceveranno più soldi chiederanno in futuro. Sui campi di prigionia c’è un disinteresse generale, tanto è vero che l’Onu continua a denunciare, a inviare i suoi funzionari e io stesso ho fatto molti reportage; però dall’Italia c’è il silenzio totale. Noi investiamo in queste strutture perché dovrebbero confermare il rispetto dei diritti umani, ma non mandiamo un solo nostro ispettore, alcun parlamentare italiano che abbia accesso in maniera improvvisa e non programmata all’interno di questi campi. Quindi diamo dei soldi, e loro li gestiscono come ritengono opportuno, senza nessun controllo reale da parte nostra».
Cosa significa “controllo reale”?
«Per “reale” intendo effettivo, perché un controllo nominale c’è. l’Onu chiede di entrare in un campo di prigionia, la Libia risponde dopo un mese, quindi apparecchia la scena per presentare le cose in maniera accettabile. L’Onu capisce subito che è tutta scenografia, perché ormai ha esperienza, però questo è quello che si trovano».
Cosa contiene il “grande gioco libico” di cui parli nel tuo libro Libyagate?
«La Russia controlla indirettamente la Cirenaica, e lì ci sono gli uomini della Wagner Group, gli stessi che combattono in queste ore a Bakmut; la Turchia fa la stessa cosa nell’altra parte della Tripolitania, gestendo direttamente o indirettamente le guardie costiere, con il paradosso che noi forniamo le motovedette, ma il coordinamento lo fa Erdogan. La posta in gioco è gigantesca: la questione degli idrocarburi. E se dobbiamo rinunciare al fornitore unico russo, bisogna investire di più in Libia. I libici lo sanno e impongono le loro condizioni».
Siamo con la corda al collo, quindi?
«Più che al collo! Il giorno in cui Giorgia Meloni è arrivata in Libia per firmare gli accordi per 8 miliardi di euro, un gruppo di sedicenti ingegneri libici ha assaltato la camera di controllo che porta gli idrocarburi dalla Libia all’Italia, facendo richieste di assunzione a aumenti stipendiali. Non potendo concretizzare le loro richieste in tempi brevi, hanno deciso, d’accordo con il gestore, di tagliare subito il 50 per cento del flusso di gas verso l’Italia. Un gruppo di persone armate, in Libia, può decidere se noi possiamo avere i riscaldamenti oppure no».
La Libia è dunque il tallone di Achille dell’Africa: perché?
«Perché tutta la filiera del traffico di esseri umani attraversa questo Paese: dalle zone sahariane e sub-sahariane, dall’Egitto attraverso confini molto porosi tutti i migranti confluiscono in Libia. Ultimamente vengono trasferiti in Tunisia, così le partenze sono aumentate moltissimo da quel Paese».
Poi Scavo aggiunge: «Alcune settimane fa, cinque pescherecci siciliani sono dovuti scappare dalle acque internazionali antistanti la Libia protetti dalla Marina militare italiana, perché stavano per essere sequestrati da alcune motovedette libiche, che noi gli abbiamo regalato. Questo è avvenuto due giorni dopo la visita di Giorgia Meloni a Tripoli. Un messaggio chiaro rivolto all’Italia: “Qui comandiamo noi. Voi dovete fare solo quello che noi vi ordiniamo: ci pagate, ci date agibilità e legittimità politica, dopodiché questa è terra nostra e voi non potete dirci cosa dobbiamo fare».
Tutta l’area del Centro Africa è destabilizzata e verosimilmente nei prossimi anni assisteremo a un aumento importante dei flussi migratori.
«È così per tre ragioni. Il primo perché ne abbiamo bisogno. Dal Veneto è arrivato l’allarme dell’imprenditoria: occorrono almeno 300 mila migranti da impiegare nelle fabbriche e nelle campagne. In secondo luogo perché le condizioni climatiche in Africa sono disastrose, l’aridità ha reso non più coltivabili molte terre e la fame si diffonde, e soprattutto perché quelle terre sono ricchissime di minerali necessari alle nostre economie».
Queste sono le “fabbriche” dell’odio contro i migranti, che li spingono nelle mani dei trafficanti?
«Bisogna fare chiarezza su un punto. Quando il Papa dice “bisogna fermare i trafficanti e vanno perseguiti”, una delle sue affermazioni scandalosamente più strumentalizzate, sa esattamente chi sono i trafficanti, perché tutti i documenti e le informazioni di cui dispone la Santa sede dicono quello che stiamo osservando noi adesso, ovvero che c’è un coinvolgimento politico diretto nel traffico di esseri umani. E se il Papa dice “fermare i trafficanti” e la politica plaude al Papa, in realtà il pontefice sta denunciando proprio la malapolitica che fa accordi con questi signori». ◘
Redazione