Il personaggio del mese: Giovanni Talamelli
Così il giornalista della TV locale ha presentato Giovanni Talamelli, il maestro orologiaio e orefice di Città di Castelloin occasione del suo centesimo compleanno, celebrato un mese fa dal Sindaco che gli ha consegnato una targa “per il traguardo di vita raggiunto e per sua attività di maestro orologiaio simbolo della città”. E infatti il maestro orologiaio e orefice Talamelli, per gli amici ‘Nanni’, è conosciuto da tutti in città e nella vallata: non c’è famiglia che, dal dopoguerra a oggi, non abbia frequentato il suo negozio all’inizio del centralissimo corso Cavour, per riparare un orologio o per acquistare un cadeau d’oro o di argento in occasione di battesimi, cresime, compleanni, fidanzamenti, matrimoni. La sua attività fondamentale è stata tuttavia, quella di visionare e riparare orologi di ogni marca e modello, prima a ricarica manuale poi al quarzo, automatici, con le pile … Entrando, lo si poteva vedere dietro il banco di lavoro con il monocolo da orologiaio ben calzato nell’occhio per metterne a fuoco i piccolissimi ingranaggi. Ha così visionato e riparato ogni anno circa 3.000 orologi, in oltre sessant’anni di attività ha compiuto quasi 200.000 interventi: un vero primato da Guinnes.
Sono meno note esperienze importanti della sua vita, più difficili e dolorose, che arricchiscono il ritratto di questo tifernate come cittadino e come uomo. Ce ne parla volentieri, rievocando anni lontani di un mondo molto diverso da oggi, in cui non era facile affrontare la vita.
La sua giovinezza, innanzitutto. Nato ad Umbertide il 27 febbraio 1923, figlio di un casellante ferroviario, ha frequentato le scuole elementari a Gubbio, aiutato amorevolmente da una suora a superare problemi derivati da un disturbo che poteva essere dislessia. Dopo due anni di Scuola Media, con la famiglia si è trasferito a Città di Castello, dove ha frequentato la Scuola Operaia Bufalini con ottimi risultati e col titolo di tornitore è entrato a lavorare nella Officina Vincenti. Ma a 18 anni, nel 1941, è stato chiamato a fare il soldato a Firenze; poi a Genova, dove ha frequentato la Scuola Militare Ansaldo, si è perfezionato come operaio e ha acquisito una base culturale, conseguendo il grado di Caporal Maggiore, con relativo stipendio; infine a Trento, dove ha ottenuto, sempre con stipendio, il grado di Sergente: un modo come un altro di guadagnarsi da vivere. L’Italia era in guerra e dopo l’8 settembre 1943 la sua vita, come quella di molti altri, cambia bruscamente: viene catturato dai tedeschi e portato a Sorau, cittadina tedesca fino al ’45, odierna Žari polacca. Diventa, come tanti, un IMI (Internati Militari Italiani, militari italiani catturati, deportati e internati nei lager nazisti, a cui viene chiesto di combattere con i tedeschi o con i fascisti della repubblica di Salò; coloro che si rifiutano vengono usati come forza lavoro per l’economia del Reich). Nel suo campo IMI vi erano 800 italiani che subirono fame, sofferenze e privazioni, e 500 ne morirono prima che arrivassero i Russi a liberarli. Nel raccontare ciò che ha visto e patito, ancora si commuove. Tuttavia Giovanni viveva e mangiava decorosamente - spesso i tedeschi lo facevano anche dormire in fabbrica - perché lo utilizzavano come tornitore avendo bisogno di mano d’opera specializzata per costruire armi. Altrimenti andava dal campo alla fabbrica scortato da un cane lupo addestrato per attaccarlo se avesse tentato la fuga. Quando nel 1945 arrivarono i Russi, l’esercito tedesco riparò, con i prigionieri, verso il nord della Germania, a Brema, che venne bombardata dagli alleati anglo americani. Giovanni ricorda un episodio che ne rivela l’umanità: durante il bombardamento, un ingegnere tedesco con cui lavorava era rimasto stordito e svenuto; lui tornò indietro, lo caricò sulle spalle e lo salvò. Gli alleati chiesero poi agli italiani IMI e ai prigionieri tedeschi se volevano combattere con loro o tornare a casa. Lui scelse di tornare.
Ha sempre creduto nell’amicizia, ma gli amici che ricorda sono quasi tutti morti. Ne cita alcuni: Giulio Crocioni, sindaco di Città di Castello dal 1948 al 1952; Nello Renzacci, compagno di pesca; Meacci, il ‘Bimbo’; Libero Baldelli, con cui, dopo la costruzione della diga di Montedoglio, aveva creato il ‘Circolo della vela e della barca’; possiede ancora un pedalò, comprato insieme a lui, che doveva esser lasciato in eredità a chi dei due fosse sopravvissuto. E poi, le donne, argomento dei giovani di sempre: in esse apprezzava soprattutto la personalità.
Parla volentieri anche dei figli, che ha educato fin da piccoli, attraverso l’esempio, al senso della responsabilità. Ricorda che un giorno, di domenica, aveva comprato come al solito delle paste, che essi non gradirono; allora le riavvolse in silenzio, uscì e le offrì a dei bambini che non avrebbero potuto permettersele.
Aveva curiosità di conoscere il mondo – dice – per cui ha fatto molti viaggi, in tutti i continenti e gli Stati, oltre che in Europa, e ha avuto modo di conoscere e ammirare le testimonianze, storiche e geografiche, di tante civiltà. Della sua città ammira soprattutto il Duomo e la Torre cilindrica. Infine ha sempre amato la musica, soprattutto l’opera lirica di Verdi e Puccini, e l’operetta, e ancora ne canta le arie più famose.
Cento anni, dunque, vissuti con intensità e responsabilità, sia nei periodi difficili sia in quelli più sereni, del lavoro, della famiglia, degli interessi e degli affetti. Nanni Talamelli è stato davvero una persona ‘simbolo della nostra città’. ◘
A cura della Redazione