Ha ragione la Destra di governo quando dice che di tragedie del mare per numero di morti e mancati salvataggi ce ne sono state ben più gravi prima di quella di Cutro, e sotto la responsabilità di altri governi. Ma i fenomeni non si misurano a peso, tra cause ed effetti quasi mai tornano i conti: la guerra d’Ucraina è più piccola di molte altre guerre passate e in corso, ma i suoi effetti sulla storia del mondo saranno incommensurabilmente maggiori, a cominciare dal sabotaggio del Consiglio di Sicurezza, che Putin non potrebbe raggiungere, grazie all’oltraggio del mandato di arresto internazionale spiccato contro di lui che di fatto glielo vieta.
La strage di Cutro e quella subito replicata sotto le coste libiche questo hanno di diverso dalle altre, che il loro impatto sull’opinione pubblica e il sommovimento che hanno prodotto nella coscienza, nel pensiero e negli atti di tutti, dal popolo della riva al Presidente della Repubblica, dalle forze politiche alle pagine dei giornali, dal Parlamento ai palinsesti televisivi, sono stati tali che l’intero problema delle migrazioni da allora ha cambiato natura, e tutte le diagnosi, le parole, le risposte politiche, le contromisure che sono state avanzate fin qui, sono diventate inadeguate e improponibili: dal patto scellerato con i libici ai porti chiusi di Salvini, dalla persecuzione delle ONG ai vani appelli all’Europa, dalle buone intenzioni di “aiutarli a casa loro” alla mitica e cinica idea di “regolare i flussi” per avere braccia da sfruttare e servi adatti ai lavori che gli Italiani disdegnano di fare.
È cambiato il problema, perché proprio l’unica risposta che non era ammessa, che sembrava impossibile e tale da essere impronunciabile a voler restare in partita nel confronto politico e sul mercato elettorale, è diventata l’unica adeguata e anche l’unica vera, ossia quella che inevitabilmente prevarrà nel lungo periodo: l’apertura delle frontiere, la via aperta agli esodi collettivi, i fornitori del servizio di trasporto non più esecrabili come “trafficanti di uomini”, il riconoscimento e l’effettivo esercizio dello ius migrandi e del diritto di mettere dovunque radici, che è stato il primo diritto umano universale attribuitosi dall’Occidente e teorizzato da Francisco de Vitoria all’alba della modernità, per legittimare la sostituzione etnica degli Spagnoli agli Indios “scoperti” in America.
La “sostituzione etnica” è precisamente l’abominio che con veemenza da comizio Giorgia Meloni aveva promesso di scongiurare nella sua campagna elettorale, forse il peggiore dei suoi impegni che le ha valso il mandato a governare conferitole da rarefatti votanti.
Oggi, per dire “ho la coscienza a posto” dopo il naufragio di Cutro, la Presidente del Consiglio non può più scambiare le migrazioni con l’invasione, invocare la “difesa dei confini” e il blocco navale, promettere di difendere l’integrità della Nazione osando l’iperbole dell’arresto degli scafisti in tutto l’orbe terracqueo. Il mondo in cui fascisti e no potevano ancora dire queste cose non c’è più, non è il mondo reale. I nazionalismi sono divenuti obsoleti non grazie alle democrazie virtuose, ma perché non ci sono più le Nazioni nel senso di “Dio, patria, famiglia”, non c’è più uniformità di lingue e di sangue; le politiche identitarie sono sicuri fattori di guerra, come nel Donbass o nel Kurdistan, e l’ultima alternativa al meticciato sono i genocidi, come è successo agli Indiani americani, agli Armeni, agli Ebrei, e succede ora col popolo dei migranti.
La sostituzione etnica è la modalità attraverso cui si è formato il mondo che conosciamo, e attraverso cui si conformerà il mondo che verrà, del quale ignoriamo tutto, come mai è stato nella Storia. Il mondo dei prossimi decenni non riusciamo nemmeno a immaginarlo: i mari che si alzano, il clima che è saltato, l’intelligenza artificiale, l’uomo robotizzato, le migrazioni di massa (59.965.888 censiti dieci anni fa, oggi oltre 100 milioni), l’età del post-teismo, l’esito della “competizione strategica” programmata da Biden tra Stati Uniti, Russia e Cina, la fine che farà il progettato Impero americano, sempre che non ci si metta di mezzo la guerra mondiale e l’atomica.
Se vogliamo continuare ad abitare il mondo com’è, dobbiamo governarne i processi, non interdirli e rovesciarli con titanismi e violenza. Senza sostituzione etnica non ci sarebbe l’America che amiamo, anzi le due Americhe, e nemmeno l’Europa, e la Lombardia dei Longobardi, e gli Angli evangelizzati da papa Gregorio, e nemmeno il cristianesimo (“Yo soy cristiana”) che è stato diffuso tra “le Genti” e ne ha ibridato e convertito le storie.
Oggi non si potrebbe lasciar scrivere a papa Francesco un’enciclica come Fratelli tutti se i fratelli non potessero incontrarsi, scambiarsi, accogliersi a vicenda, vivere insieme oltre le differenze di lingue, religioni, territori e culture, così come non si potrebbe pensare a un mondo ricomposto nella sua unità e salvaguardato da un ordinamento costituzionale per tutta la Terra, senza che il pluralismo e lo scambio tra i popoli siano riconosciuti e preservati nell’ “armonia delle differenze”.
Quest’anno, 2023, può essere l’anno della svolta se, come ha scritto il gesuita Felice Scalia ricordando Italo Calvino, sapremo “cercare e sapere riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”. Aprire le porte e il cuore ai migranti è sottrarre all’inferno, intanto loro, e poi anche noi. ◘
di Raniero La Valle