Alidad e Cutro: una tragedia che continua

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silvia romano2

Si è riaperta una profonda ferita in Alidad  Shiri per il terribile naufragio vicino alla costa di Steccato di Cutro. Lui, giovane afghano, arrivato in  Alto  Adige ancora ragazzino nell’agosto 2005, sa che cosa vuol dire affrontare questi pericolosissimi viaggi per fuggire dalla guerra, da morte quasi certa. Rimasto orfano all’età di nove anni, dopo che gli sono stati uccisi a pochi mesi di distanza prima il padre, quindi insieme la mamma, la nonna e la sorellina, profugo quindi con la zia in Pakistan, ha poi intrapreso con altri e come altri, con mezzi di fortuna, il lungo ed estenuante percorso attraverso Teheran, Turchia e Grecia per affrontare infine da solo l’ultimo tratto, legato sul semiasse sotto un tir, dal porto di Patrasso a Bressanone.

Conosciutolo nella Scuola Media di Merano, in cui insegnavo l’italiano ad alunni stranieri appena arrivati, l’ho incoraggiato da subito a raccontare la sua storia, mi sono presa cura di lui come di un figlio affidato da lontano, e l’ho sostenuto anche nello scrivere un libro, lui voce di chi non ha voce, per aprire gli occhi alla nostra gente. Ora, giovane adulto, laureatosi nel 2021 presso l’Università di Trento con una tesi su “L’Afghanistan e la tragedia della politica”, oltre che nel lavoro di educatore, continua a spendersi  girando in tutta Italia, invitato da scuole, associazioni, istituzioni, per informare e formare i nostri giovani, dando un grande contributo alla formazione di una società aperta, plurale, cosciente e accogliente.

Così Alidad scrive in un diario di questi terribili giorni che ha vissuto direttamente a Cutro, alla ricerca di un cugino disperso.

alidad e cutro una tragedia che continua altrapagina aprile 2023 1Vedo sui gruppi WhatsApp degli afghani che aumentano le richieste di aiuto sia da parte di familiari lontani che cercano informazioni, sia da parte di vicini che hanno difficoltà con la lingua per contattare le autorità. Ricevo tante chiamate di persone che non conosco giovedì pomeriggio, ma come al solito, se non conosco non rispondo. Anche mia cugina che è arrivata in Italia dopo la presa del potere dei talebani in Afghanistan mi chiama tre volte; dato che sono occupato nel lavoro, non posso rispondere neanche a lei. Mi aveva lasciato un messaggio vocale che mi avvisava della presenza sulla nave del nostro cugino. Venerdì mattina, mentre esco dall’ambulatorio del medico di base, vedo che lei mi ha di nuovo chiamato. Provo a richiamarla io e sento che piangendo mi conferma la triste notizia: su quella nave si trovava anche un nostro cugino che io non avevo mai visto perché ha solo 17 anni. Pur non conoscendolo, non riesco a trattenere le lacrime perché io conosco quel tipo di viaggio che avevo intrapreso, bambino, proprio 17 anni fa, e che mi aveva portato dalla Turchia alla Grecia. Conosco quelle paure, quel silenzio di notte in cui anche se non c’è niente intorno, si teme quasi di essere notati, quel mal di mare che ti fa vomitare, quel tanfo che deriva dall’essere in così tanti stretti dentro lo scafo senza poter prendere una boccata d’aria. Ci unisce la speranza di arrivare in un posto dove potere vivere, avere diritto di parlare, di ascoltare la musica, di studiare, di lavorare, di poterti radere la barba senza che qualcuno te ne controlli i centimetri, di vestirti come vuoi, anche di pregare, ma senza costrizioni da parte della polizia morale del regime, senza che qualcuno ti frusti e ti arresti perché non frequenti la moschea.

Avviso subito i responsabili dove lavoro che dovrò assentarmi qualche giorno, e parto immediatamente per Crotone… Noto sulla rete degli afghani che cercano urgentemente interpreti che si rechino sul posto; alcune persone danno la disponibilità da Roma, allora chiedo di unirmi a loro e così parto da Bolzano con il primo treno per Roma.... Insieme agli amici afghani (Khan, Assad, Dawood e Fatema) che mi aspettano a Roma, ci troviamo a casa di Jan, che mette a disposizione un gruppo di lavoro, in cui inserirci, per partire quindi noi cinque di notte in macchina. Dopo Cosenza troviamo anche la neve, qualcuno da tanto non l’aveva vista, ci fermiamo per toccarla. Khan, che guida, procede piano piano perché non abbiamo le catene anche se le gomme sono invernali. Arriviamo a Crotone alle 8. Cerchiamo di capire dove si trova la sala Pala Milone dove hanno portato le salme. Arriviamo davanti: tanti giornalisti fuori dal cancello, foto di alcune vittime appese alla ringhiera con sotto fiori che lasciano cittadini autoctoni e familiari. I due poliziotti che controllano la porta ci fanno entrare; la porta della sala è ancora chiusa, non sono ancora arrivati la polizia scientifica e il medico legale…

Intanto cerco Manuelita, responsabile dell’Associazione Sabir, che avevo già sentito per telefono, a cui avevo mandato la foto di mio cugino. Vedo aprirsi la porta per l’arrivo del medico legale, entriamo nell’ambiente chiuso, e noto che per entrare nell’ufficio della Polizia scientifica occorre avere un numero che viene dato dalla Croce Rossa. Prendo subito il primo numero, ancora prima di entrare nell’ufficio, vedo il medico e gli mostro la foto di mio cugino. Lui mi dice che c’è il corpo di uno che gli assomiglia. Entriamo in ufficio e chiedo a Dawood e Fatema di accompagnarmi.

alidad e cutro una tragedia che continua altrapagina aprile 2023 2Ci sediamo, consegno il mio cellulare con la foto, lui cerca nel pc la foto che gli assomiglia e mi chiede se voglio guardare la foto, però mi avvisa che sono pesanti. Rimango per qualche secondo senza parole, penso dentro di me se sono pronto a vedere qualcosa di terribile che non avevo mai visto, mi risveglio quasi con la domanda del medico: Allora?

Trovo coraggio e mentre Dawod da una parte e Fatema dall’altra mi sostengono, rispondo di sì. Lui gira lo schermo verso di me, vedo la parte superiore del corpo di un ragazzo ferito nel viso, con gli occhi aperti guardo la mia foto, riguardo l’immagine e vedo che gli assomiglia molto. Però, dico, non l’ho mai visto di persona. Provo a chiamare sua sorella, ma non risponde. Dico al medico che devo aspettare il riconoscimento da parte sua, lui mi dice che non c’è problema, che abbiamo tempo. Dieci minuti dopo mi chiama lei, accendo la videochiamata, e come vede la foto si mette subito a piangere, mi dice che per il 98% sembra lui, ma rimane un minimo spazio di dubbio. Mi chiede di andare a parlare con qualcuno che era con lui in viaggio. Mi informo e vedo che un ragazzo di 16 anni in viaggio con lui ora è ricoverato all’ospedale di Crotone, a pochi passi dalla sala dove mi trovo. Scopro che per parlare con lui devo avere l’autorizzazione del suo tutor che è un avvocato.

In quel momento di disperazione cerco di chiedere a tutti se hanno notizie, mostrando la foto di mio cugino; poco dopo vedo un autobus della protezione civile che fa scendere dei sopravvissuti che entrano nella sala per omaggiare i familiari scoparsi. Parlo con un ragazzo, scopro così che appartiene a una famiglia numerosa, 21 persone che erano sulla nave di cui solo 5 sono sopravvissuti, 10 morti e 6 dispersi. Lui mi dice che non è al Centro di Accoglienza con loro, ma l’aveva visto sulla nave. Mi fa vedere una foto di quel ragazzo di 16 anni ricoverato in ospedale e io subito la mostro a un operatore dell’associazione Sabir, Ramzi, il quale mi comunica che lui conosce l’avvocato, tutor del ragazzo, che parlerà con lui. Io rimango alla Scientifica a dare una mano a una famiglia, arrivata dall’Olanda per il riconoscimento dei loro tre nipoti. La sala risuona di pianti ogni volta che avviene un riconoscimento. Verso le 15 chiedo a Federica della Croce Rossa se, nel caso in cui mi arrivi l’autorizzazione, può accompagnarmi in ospedale a parlare con quel ragazzo. Mi accompagna Federica in Pediatria, parlo con il ragazzo ma veniamo subito interrotti dalla dottoressa, che ci sgrida, esce un momento con Federica a chiamare i suoi responsabili, mentre io ne approfitto per descrivere velocemente al ragazzo la foto che mi aveva fatto vedere la Scientifica. Lui mi risponde che non è mio cugino, così esco dalla stanza… Non riesco a dormire, mi viene ancora alla mente l’immagine di quel ragazzo che assomiglia tanto a mio cugino, con gli occhi aperti da non sembrare morto…

Mentre alle 9.30 mi trovo nell’Ufficio della Scientifica, entra il padre della famiglia che avevo aiutato il giorno prima nel riconoscimento dei familiari, mostrando una foto: assomiglia a quel ragazzo che pensavo fosse mio cugino. Era invece di un ragazzo di 21 anni, veniva da Herat al confine con l’Iran, dove per 20 anni sono stati anche i militari italiani a combattere i talebani. Chiamiamo i familiari in videochiamata, mostriamo la foto, si mettono a piangere, lo riconoscono anche dal tatuaggio. Subito dopo arriva un’altra famiglia di Badghis, una città del nord Afghanistan; sono scesi dalla Germania per riconoscere la figlia e il genero che avrebbero dovuto raggiungerli. Di nuovo scene di pianto e disperazione.

Così giorno per giorno sono immerso in un mare di dolore. La notte non riesco a dormire, le occhiaie sono sempre più visibili perché corro qua e là dove mi richiedono un servizio, senza riuscire a mangiare un panino fra i generi di conforto che distribuisce la Croce Rossa…

ScreenHunter 06 May. 11 09.06Tragedia nella tragedia: sono morte moltissime donne e bambini perché non sapevano nuotare. Convinco la signora di Herat che fa parte dell’unica famiglia che si è salvata interamente a dire qualcosa. Lei racconta della sua partenza, perché era una donna istruita e quindi perseguitata; parla della disperazione di quella notte, con la tempesta, i pianti, le urla di disperazione dei bambini, degli adulti che lottavano per non morire… La maggior parte delle vittime di cui ho visto i documenti, erano funzionari e parenti delle persone di due Ministeri, Interno e Difesa, che hanno sempre combattuto i talebani. Rischiavano continuamente la vita rimanendo in Afghanistan. Pensavano che il viaggio fosse un rischio minore, anche per le loro famiglie, rispetto al rimanere sul posto che, prima o poi, era una condanna a morte. Avevano grandi sogni: alcuni volevano diventare astronauti e avevano addirittura contattato la Nasa. Tanti volevano diventare avvocati, giornalisti, magistrati, ingegneri. Cercavano, uomini e donne, libertà, un futuro diverso per i loro bambini che noi in Occidente diamo per scontato. Mi si è riaperta una grande ferita: anche io ho sofferto tanto, ho dovuto fuggire da solo ancora ragazzino, perché non avevo altra possibilità per salvarmi la vita: ho visto cambiare tanti governi in Italia, di Centro, Sinistra e Destra, promesse su promesse, ma ancora nessuna soluzione, e muoiono ancora tante persone innocenti, perché non si trovano vie legali con cui possano arrivare senza correre così gravi rischi. Anche il corridoio umanitario recente per 1200 afghani non è stata una soluzione aperta, perché tanti non avevano il passaporto necessario come prevedeva il protocollo. A volte penso che se una tragedia non ti tocca direttamente, difficilmente la capisci e spendi energie e risorse per prevenirla. ◘

Testimonianza raccolta da GINA ABBATE