Nessuno ha la certezza di vivere fino a domani. Questa frase in Marocco nelle strade, nelle case e tra gli amici si sente spesso. In Marocco si dice: «vivi adesso e non pensare al domani».
Molti ragazzi di età molto giovane si ritrovano in condizioni di vita precaria, perdono speranze ancor prima di iniziare, giovani che abbandonano la scuola per darsi al lavoro, giovani che cercano speranza in un’altra terra.
Oggi i numeri salgono e le persone che emigrano dai loro Paesi per cercare una migliore possibilità di vita sono numerose, come dimostrano i dati dell’Unione Europea che nel 2021 ha stilato alcune statistiche: 112.700 persone hanno ricevuto lo status di rifugiato, 61.400 hanno ottenuto la protezione sussidiaria, 28.000 hanno ricevuto lo status umanitario, non contando gli altri milioni di ragazzi, donne e, a volte, intere famiglie disperse nel continente europeo. Sono dati che spaventano e la domanda sorge spontanea: cos’è che spinge così tanti ragazzi a scappare? Cos’è che ha questa terra rispetto alle altre? Domanda molto più importante: perché questi ragazzi offrono la loro vita al mare?
Conosco due strade che dai Paesi africani porterebbero in Europa. La prima sarebbe quella di passare per il territorio turco e farsi un lungo percorso a piedi: questo inizierebbe in Turchia e attraverserebbe vari Paesi europei come Grecia, Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria e infine Italia e Francia. Una strada della morte che racconta di persone morte dal freddo, altre uccise da varie mafie, altre invece prese dalla polizia locale e rimandate nei propri Paesi. Sembrerebbe più la trama di un libro di avventure, ma la realtà straziante è che quel percorso esiste veramente e oggi decine di corpi sono dispersi in mezzo a quelle foreste. Questa è solo una via verso la speranza di una nuova vita. L’altra invece è quella di rischiarla in mare, di salutare la propria famiglia con la probabilità di non rivederla più, di salutare la propria moglie e i propri figli con la speranza di ritornare con l’opportunità di una vita migliore.
Proprio come Anas, che a mezzanotte, prima di lasciare casa, non riuscì a salutare la mamma né i due fratelli, tutti però consapevoli del suo imminente viaggio. Quella notte Anas con uno zaino in spalla pieno di cibo e del necessario, prese un taxi da Casablanca a Jadida, da dove partì insieme ad altri ragazzi suoi amici. Anas quella notte non riuscì a salutare nessuno perché, forse per paura, non voleva che quel saluto fosse un addio.
Anas quella sera non sapeva che forse quel saluto avrebbe dovuto darlo. Partì con quel barcone che in Spagna non riuscì mai ad arrivare.
E poi una telefonata: “il barcone dove era Anas è caduto in mare”.
Le urla strazianti della madre, dei fratelli, dei vicini e degli amici non cessarono. C’erano pochissime speranze che si fosse salvato.
Anas aveva 22 anni quando lasciò la sua vita in balia del mare, quando lasciò le sue speranze, i suoi obiettivi e i suoi sogni al mare, quando il suo ultimo respiro fu inghiottito…dal mare.
A distanza di quasi un anno e mezzo i genitori di Anas non possono piangere sopra una tomba, perché una tomba non c’è. Il corpo di Anas ad ora non è mai stato ritrovato.
Oggi ci sono milioni di famiglie come quelle di Anas che piangono la vita dei figli dispersi in mare, figli che fuggono da condizioni di vita precarie.
Dietro ogni immigrato che entra nei nostri Paesi c’è un’autentica storia di sofferenza nascosta. ◘
Ikram Khartom