Martedì, 18 Marzo 2025

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Le imprenditrici segrete dell'Afghanistan

AFGHANISTAN. Reportage di Francesca Borri da Mazar-i Sharif.

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Dietro il secondo cancello in ferro, non c’è che una scala stretta e ripida, e un po’ scalcinata. E da giù, arriva un suono metallico come di acqua che gocciola. Come di tubi. Ma non sono tubi. Sono Singer. Scosti una tenda rossa: e trovi sei sarte.

Trovi una delle aziende segrete dell’Afghanistan.

Quando i talebani sono tornati al potere, Najma Abeel ha chiuso il suo atelier nel centro di Mazar-i-Sharif, e per prudenza, si è trasferita qui: nello scantinato di un’anonima palazzina di periferia. Ha iniziato dieci anni fa, con cento dollari, e oggi ha 16 dipendenti. E i suoi abiti sofisticati sono ancora molto richiesti. “Invece che nel mio atelier, vendo online. Vendo su Instagram. Ma non è la stessa cosa. Non è così facile”, dice. Stare sul web implica competenze di marketing che non ha. E tempo, risorse. Ha perso metà del fatturato. “Si parla tanto delle afghane, di solidarietà, ma poi, in concreto, l’unico aiuto è un visto Schengen per andare via. E che aiuto è? Qui mi sono creata un mio spazio. Cosa farei, in Europa? Abiti afghani che nessuno vorrebbe?”, dice. “Verrò: ma da stilista. Non da rifugiata”.

Mazar-i-Sharif ha l’aria di sempre. Il suo nome significa Santuario dell’Illustre, perché la sua Moschea Blu si dice sia la tomba di Ali, il fondatore dell’Islam sciita: ed è un via vai di pellegrini, tutto il giorno. Tutti i giorni. Solo dopo un po’ noti che per strada, però, sono tutti uomini. Ma le afghane non stanno a casa: stanno sottoterra. Negli scantinati, nei sottoscala. In fondo ai cortili, nel retro di un ufficio. Dietro doppie, triple porte. Finte pareti. Islamic Relief, una ONG inglese, ha finanziato 400 imprenditrici con mille dollari l’una. Abbastanza per ricomprare stoffe, telai, concimi, per riadattare uno spiazzo di erba a orto, un magazzino a oreficeria: e ripartire - invece che partire.

le imprenditrici segrete dell afghanistan altrapagina maggio 2023 1Ma in realtà, non è solo questione di talebani. “Per la stampa internazionale, il problema qui è il burqa. Ma onestamente, ho l’hijab e basta. Come prima. Come tutte. E se sei in jeans, non è che ti fermano. Il mio primo problema sono le sanzioni”, dice Mahbouba Zamani, figlia, nipote e pronipote di tessitori di tappeti. Si è specializzata in Iran, e ha clienti in mezzo mondo. “Pensate solo all’Ucraina ora, e l’avete dimenticato: ma il nostro sistema bancario è bloccato. E per me che esporto tutto, è un disastro”. Ha traslocato in un seminterrato: ma i suoi sono tappeti da centinaia di dollari al metro quadro. La lana viene colorata con estratti di foglie, come una volta. Per avere tonalità uniche. Per tappeti così, ci vogliono mesi di lavoro. E anni di esperienza. “Discutete di Afghanistan: e proponete il microcredito per quelli che vendono sciarpe e ciondoli ai diplomatici in visita. Ma le aziende che generano sviluppo e ricchezza sono queste. Aziende vere. Aziende come le vostre”, dice. “E invece, ora spreco tutto il mio tempo a ingegnarmi per bypassare le sanzioni”.

Come Nazia Hidari, un’altra che ha cominciato con cento dollari: e ricominciato con Islamic Relief. Ha 60 dipendenti. E un distributore in Canada. Da lì, le sue stoffe sono vendute ovunque. “L’altro problema, certo, è questo obbligo ora di viaggiare con un mahram. Con un uomo. Soprattutto per il mercato interno: perché è un obbligo oltre i 70 chilometri, e quindi mi è complicato esaminare i campionari insieme a clienti e fornitori, incontrarli. Partecipare alle fiere. Ma con il sistema bancario bloccato, mi è tutto complicato anche a meno di 70 chilometri”, dice. “Tra l’altro, dice, alla fine usi il contante, usi l’hawala”. O il baratto. Cioè, alla fine, bypassi le barriere: ma mediante mille intermediari che ti azzerano i profitti. “E il danno è per tutti. Anche per la comunità internazionale. Perché le sanzioni o sono rigorose o sono inefficaci”, dice. “Non ha senso”. In effetti, non solo le sanzioni non sono a tenuta stagna. Ma arrivano anche aiuti: per il 2023, l’ONU ha chiesto 4,6 miliardi di dollari. La cifra più alta mai chiesta per un paese. In teoria, anche questo progetto di Islamic Relief non dovrebbe esistere. Perché è consentito solo l’aiuto umanitario, cibo, coperte, medicine, cose così: non l’aiuto allo sviluppo. Per non rafforzare i talebani. Ma è quello che è più utile: ed esiste. “Negli ultimi anni, il 75 percento del bilancio era coperto dagli aiuti. Il nostro obiettivo è che gli afghani non dipendano più dagli altri. La libertà è anche questo”, dice Fereshta Yusufi, l’economista a capo del progetto. E a proposito: ma le afghane non dovrebbero stare a casa?

I talebani hanno vietato alle ONG di avere staff femminile. L’unica eccezione sono i progetti di istruzione e salute. E allora? “Vengo in ufficio comunque”.

le imprenditrici segrete dell afghanistan altrapagina maggio 2023 2Mazar-i-Sharif è contraddittoria. Come tutto l’Afghanistan. Con i suoi 500 mila abitanti, è una delle cinque maggiori città. La sua università è aperta solo agli studenti ora, e così i parchi, aperti solo agli uomini. E le palestre. Ma se il bowling, che era il ritrovo per le serate tra amiche, è chiuso, come molti dei caffè frequentati da musicisti, artisti, scrittori, attivisti, una palestra ha già riaperto alle sue iscritte, e anche alcune scuole, il Rabia Balkhi, un centro commerciale tutto al femminile, ha le serrande alzate, e alcune donne pedalano tranquille in bici. Molte sono in nero fino alle caviglie. Altre no.

Con i mille dollari di Islamic Relief, Laila Alizada, che, dai cento dollari con cui ha cominciato, oggi ha a libro paga tutti i maschi di famiglia, ha cambiato l’impianto di irrigazione delle serre in cui coltiva verdure. E che certo non passano inosservate.

Un conto sono scuole e università, su cui i decreti dei talebani sono chiari: un conto è tutto il resto. “In realtà, non si capisce mai se le nuove norme siano un obbligo o meno. E molto varia da città a città. O anche da strada a strada”, dice Najiba Mateen, che ha trasformato in cucina il ripostiglio di un’agenzia di assicurazioni, e, dietro un pannello di plexiglass, gestisce uno dei take-away più rinomati, con nove cuoche e quattro pagine di menù. Solo che,

invece dei controlli dei NAS, ha quelli della Polizia del Vizio e della Virtù. “Un giorno i talebani sono venuti, e mi hanno ordinato di chiudere. Ma tecnicamente, la legge non ci vieta di lavorare: dice solo di stare a casa, quando uscire non è strettamente necessario. E se non lavoro, come campo? E quindi ho risposto che per me campare è strettamente necessario”, dice. E come è andata?, dico. “Sono tra i miei migliori clienti”.

le imprenditrici segrete dell afghanistan altrapagina maggio 2023 3Sono tra i migliori clienti anche di Bibi Munira, che nel suo nuovo pastificio all’interno di un parcheggio ha affisso tanto di insegna luminosa. “Spostarmi qui è stato un passo avanti. Non indietro. Prima, ognuna lavorava a casa propria. Perché vorrei ricordarlo: fino a ieri si sparava a ogni angolo”, dice. E in effetti, colpisce: molti girano con Google Maps. Come se non fossero mai stati qui dove sono nati. “La verità è che, con gli americani, larga parte del Paese ha avuto solo violenza e miseria. Ed è da lì che arrivano i talebani. Da un’altra vita. Trovo normale che siano diffidenti, ora. Che stiano, come dire?, in difesa. Ma siamo tutti musulmani. Abbiamo tutti gli stessi valori. E infatti, chi ci sostiene? Una ONG che si chiama Islamic Relief. Mica la CIA. Si abitueranno: è solo questione di tempo”, dice. Di tempo e prospettiva. “Possiamo vederla come uomini e donne, talebani e non talebani: ma anche come madri e figli. Padri e figlie. Fratelli e sorelle. E parlarci”. “Anche perché prova a parlare con l’ONU”, dice. “Se sei un afghano comune. Prova”, dice. “Con i talebani, non è facile: ma la porta è aperta. All’ONU stanno dietro muri alti sei metri”.

“Secondo me, molti dei divieti sono più tattica che ideologia”, dice - dicendo quello che ti dicono tanti, qui: in fondo, persino Suhail Shaheen, il portavoce dei talebani, la cui famiglia è a Doha, ha due figlie al liceo. “Ma perché al mondo non importa altro”, dice. “Solo le donne. E quindi, per i talebani non c’è altra leva contro le sanzioni. Che sono la priorità assoluta”, dice: “perché il 97% degli afghani ormai è alla fame. E il primo dei diritti, è il diritto a restare vivi”. “Poi, certo che voglio le scuole aperte. Come tutti. Non siamo pedine. Non siamo una carta da poker”, dice. “Ma questo vale per entrambi”, dice. “Anche per voi”. ◘

di Francesca Borri da Mazar-i Sharif


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