INTERVENTO. A proposito del mandato di arresto nei confronti di Putin emesso dalla Corte Penale internazionale.
Essendo un’allieva di Antonio Cassese, uno degli architetti della Corte Penale Internazionale, voglio ovviamente che Putin finisca all’Aja, un giorno. E però, dei mille capi di imputazione possibili, è un po’ singolare: l’accusa è: “deportazione di bambini”.
Dall’Ucraina, e soprattutto dalla Crimea, alla Russia.
Per rieducarli, e russificarli.
Il procuratore Karim Khan ha spiegato che è semplicemente l’accusa per cui ha prove più solide. Eppure ha inviato in Ucraina i suoi investigatori già il 2 marzo, a una settimana dall’invasione, che è iniziata il 24 febbraio: 42 investigatori, prestati dall’Olanda, una prima assoluta - Antonio Cassese, Presidente del Tribunale per la ex-Jugoslavia, arrivò, e trovò un ufficio vuoto: non aveva avuto manco una penna. Con tutto quello che si è visto, è difficile onestamente che all’Aja non abbiano prove per i bombardamenti indiscriminati, le esecuzioni extragiudiziali, la distruzione di infrastrutture civili. I missili su Kiev sono stati rivendicati da Putin stesso come rappresaglia per l’esplosione del ponte di Crimea. Diciamo però che dei tanti crimini di guerra elencati all’articolo 8 dello Statuto di Roma, la deportazione di bambini non è proprio il tipico crimine compiuto dalle forze della NATO.
Non è un crimine che farà precedente.
In Ucraina, il crimine per cui esistono più prove è senza dubbio un altro: l’aggressione. E cioè l’uso della forza armata contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato. Ma su questo, l’Aja su Putin non ha giurisdizione. Per ragioni che dicono molto di come va il mondo. Lo Statuto di Roma, infatti, è del 1998, ma per l’intesa su quello che a Norimberga fu definito “il crimine internazionale supremo”, perché alla fine, l’aggressione è il crimine da cui derivano tutti gli altri, sono stati necessari gli emendamenti di Kampala del 2018: altri vent’anni. In effetti, non è semplice come sembra. L’esempio da manuale è il 1967. La guerra dei Sei Giorni. Tecnicamente, è stato Israele ad attaccare: ma per sventare un attacco dell’Egitto di Nasser. E quindi, chi ha cominciato davvero? E cosa significa forza armata? Uno sconfinamento di carri armati, o anche un attentato? Uno sparo a un arciduca Francesco Ferdinando? Un sabotaggio? Dei razzi dal Libano? E se sì, quanti? Fortunatamente, però, le responsabilità in genere sono più chiare. Come per l’Iraq. L’Iraq di Bush e Blair. E per questo a Kampala si è deciso che l’Aja non ha giurisdizione se l’aggressione è compiuta da un cittadino di uno Stato non parte, anche se avviene sul territorio di uno Stato parte, come in questo caso: l’Ucraina è parte, la Russia no.
Gaza è parte, Israele no.
Per questo, contro Putin, non restano che gli altri crimini.
Ma tra gli altri crimini, meglio concentrarsi sulla deportazione di bambini.
Meglio coinvolgere la Corte Penale Internazionale, sì: ma non troppo.
Perché il diritto internazionale funziona un po’ come il common law angloamericano: non si basa sul legislatore, sulla legge del Parlamento, ma sul giudice. Sulla giurisprudenza. E ha un’energia tutta sua. L’intero diritto di guerra, da sempre riservato ai conflitti internazionali, è stato rivoluzionato non da un trattato, ma dalla sentenza Tadic del 1995 del Tribunale per la ex Jugoslavia, secondo cui, se l’obiettivo è tutelare la vita, non ha senso: tra i conflitti internazionali e i conflitti interni non c’è differenza. Ed è così che è stato esteso alla Bosnia. Dal primo Tribunale istituito dopo Norimberga, quello senza neppure una penna: ma da lì, sentenza a sentenza, si è arrivati a Putin. Così come l’Unione Europea, la moneta unica, il mercato unico, e sempre più, una politica unica, deriva da Maastricht, sì: ma Maastricht deriva dalla sentenza Cassis de Dijon del 1979 della Corte di Giustizia di quella che era allora la CEE. Una sentenza sulla libera concorrenza. Su un liquore.
Una volta innescato, il diritto internazionale ha una dinamica sua.
E dunque: che non si parli di prigionieri torturati.
Che quelli della Russia sono così simili a quelli di Guantanamo. Di Abu Ghraib.
La Corte Penale Internazionale è attiva dal 2002. Ma finora, complice anche un bilancio di 170 milioni di dollari, il costo di un weekend di missili su Kiev, in ventun’anni ha aperto solo 31 procedimenti. Con 40 mandati di arresto: 21 detenuti e 10 condannati. E il problema, è che sono tutti africani.
Anche perché ha giurisdizione solo se il crimine è compiuto nel territorio di uno Stato parte, o da un cittadino di uno Stato parte. Non è complicato schivarla.
E dunque, non una parola su Assad e la Siria.
Su una guerra da un milione di morti.
Ma gli Stati Uniti, ora paladini di Putin alla sbarra, non solo non sono uno Stato parte. Hanno reagito allo Statuto di Roma con una serie di accordi bilaterali di immunità: con cui gli Stati che abbiano sul proprio territorio ricercati americani si impegnano a rispedirli in patria, invece che estradarli all’Aja. L’alternativa, per recuperarli, è direttamente l’American Service-Members’ Protection Act. Che autorizza operazioni militari.
Quando l’Aja ha aperto il fascicolo sull’Afghanistan, la risposta sono state sanzioni.
Antonio Cassese avrebbe detto che non importa. Che non è l’ideale, certo: ma tutto è utile. Anche un’accusa per deportazione di bambini. Perché quello che conta è esserci. Era un sostenitore dell’obiter dictum, l’incidentale, letteralmente, quello che a rigore, non rientra nel precedente, perché è accessorio alla decisione, scriveva sentenze di decine di pagine: ma perché poi, diceva, non si sa mai. Intanto scrivo. Solo che questa guerra mira a un nuovo assetto internazionale. Multipolare. E non più dominato dall’Occidente. Ed è una guerra che l’Assemblea Generale dell’ONU ha condannato con appena 5 voti contrari, sì: ma tra gli astenuti, India e Cina da sole hanno oltre la metà della popolazione mondiale.
Un’accusa per deportazione di bambini non rafforza il diritto internazionale. Al contrario. Rafforza l’idea del Tribunale degli africani. Del Tribunale degli altri.
Rende il mondo meno giusto.
A novembre 2021, Karim Khan ha riavviato le indagini sull’Afghanistan. Su cui certo non gli mancano le prove: sono quelle per cui è in carcere Julian Assange. Ma ha detto che indagherà solo sui talebani. Che quella è la priorità.
Era in conferenza stampa. E non ha detto altro.
Così. Quella è la priorità. Senza mezza argomentazione giuridica.
Poi in aula c’è scritto: La legge è uguale per tutti. ◘
di Francesca Borri