Martedì, 10 Dicembre 2024

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L'Italia con l'elmetto

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L’Italia, insieme a Fran­cia e Regno Unito, rientra nella classifica SIPRI dei primi 15 Paesi per spese militari. Secondo i dati SIPRI aggiornati all’aprile 2019, le spese militari italiane destina­te alla Difesa hanno raggiunto il valore di 27.8 miliardi nel 2019», afferma Benedetta Giuliani, lau­reata in Scienze Storiche e col­laboratrice dell’Istituto Archivio Disarmo. Una parte del bilancio da tempo nel mirino dei movi­menti pacifisti e non solo, che vorrebbero veder ridotto tale stanziamento del bilancio stata­le per destinare le risorse ad altri usi.

 

 

Stiamo assistendo a una ri­presa imponente delle spese militari per la produzione e il commercio di armi. A cosa è dovuto tale fenomeno?
«Il settore degli armamenti è un settore senza crisi. Sono stati recentemente pubblicati gli ulti­mi dati del SIPRI uno dei prin­cipali centri di ricerca di spese militari e trasferimento d’armi, secondo cui le vendite delle più grandi compagnie produttrici di armi hanno raggiunto nel 2018 il valore di 420 miliardi di dol­lari americani, segnando di fat­to un aumento del 4,6% rispetto al 2017.L’andamento dei ricavi complessivi del commercio in­ternazionale di armi ha avuto un trend in continua ascesa negli ultimi 15 anni: tra il 2014 e 2017 è aumentato del 7,8%rispetto al quinquennio precedente, e del 23% rispetto al 2004-2008».

Quali considerazioni si posso­no ricavare da questo anda­mento delle spese militari?
«Rispetto all’aumento interna­zionale della produzione di armi emergono tre dati significativi:Gli Stati Uniti risultano ininter­rottamente alla testa tra i paesi produttori ed esportatori.Gli Stati Uniti hanno distanzia­to in modo rilevante la Russia, suo rivale diretto, nella produ­zione ed esportazione di armi. Se tra il 2009-2013 la produzio­ne di armi americana superava quella russa del 12%, tra il 2014-2017, questo divario è arrivato al 75%. I paesi situati al di fuori dell’area euroatlantica hanno un ruolo marginale rispetto al com­mercio di armi.Nella classifica dei primi 25 paesi esportatori di armi,diciassette sono compresi tra il nord America e l’Europa. Il Medio Oriente si afferma come una delle principali regioni dove cresce l’importazione degli ar­mamenti, e questo riguarda tut­ti i principali esportatori, dagli Stati Uniti, alla Russia, fino ad arrivare a noi, alla Francia, alla Gran Bretagna e all’Italia»

Tra il 2009-2013 la produzione di armi americana superava
quella russa del 12%, tra il 2014-2017, questo divario è arrivato al 75%

 

Il commercio degli armamenti avviene in modo trasparente seguendo regole internaziona­li condivise, oppure presenta delle zone grigie?
image 144«A livello nazionale, sovranazio­nale e della Comunità europea in realtà esistono degli strumen­ti giuridici volti a stabilire delle norme di trasparenza relative alla produzione e commercio degli armamenti. Tra questi strumenti il più importante è la Posizione Comune Europea del 2008 che stabilisce per l’export degli armamenti principi di tra­sparenza, rispetto dello stato di diritto e del diritto internaziona­le, in particolar modo per quan­to concerne il rispetto dei diritti umani. Questi strumenti, pen­sati per essere giuridicamente vincolanti, in realtà si scontrano con gli interessi commerciali dei singoli Stati, e poiché alle poli­tiche di difesa sono associate le norme che regolano l’export de­gli armamenti, molto spesso pre­valgono gli interessi economici e strategici degli stati nazionali e questo concorre a creare delle zone d’ombra»

Quale ruolo ha l’Italia nel com­mercio internazionale di armi?
«Negli ultimi sette anni l’Italia si è ritagliata un ruolo di primo piano. Secondo i dati del Sipri tra il 2013 e il 2017 il nostro Pa­ese si è classificato al nono po­sto tra i primi dieci fornitori di armamenti a livello internazio­nale, in particolare esporta armi piccole e leggere ed è competiti­va anche nel settore navale. Ciò nonostante nella relazione che il Governo presenta annualmen­te al Parlamento riguardo alle spese militari, nell’ultimo anno si è registrato un calo del 53% dei trasferimenti complessivi dei sistemi di armamento. Tuttavia il nostro materiale bellico conti­nua a essere competitivo e par­ticolarmente apprezzato soprat­tutto nell’area del nord Africa e del Medio Oriente».

A cosa è dovuto questo calo?
«Al fatto che si stanno ancora smaltendo gli ordinativi di ar­mamenti assunti dalle industrie italiane negli anni passati. Que­sti riguardano, per la maggior parte dei casi, sistemi militari complessi che richiedono un lungo processo di assemblaggio. Non si tratta pertanto di una contrazione legata a una crisi intrinseca al mercato militare, quanto piuttosto ai tempi di pro­duzione richiesti dai diversi si­stemi d’armamento»

A quali paesi vende sistemi di armamenti principalmente l’I­talia?
«Per il 72% a paesi al di fuori della Nato e del blocco euro­peo. Nella graduatoria dei paesi acquirenti si trovano Qatar, Pa­kistan, Turchia e gli Stati arabi, nelle posizioni successive tro­viamo Germania, Stati Uniti e Francia».

A quanto ammontano le espor­tazioni?
«All’area del Medio Oriente e del nord Africa sono destinate il 48% delle esportazioni. Al­trettanto significativa è la per­centuale dell’export che finisce in Asia, il 21%. In particolare alcuni paesi dell’area Medio Orientale hanno visto aumenta­re il numero delle autorizzazioni concesse nel 2018: l’Oman e il Libano. In modo più specifico l’Arabia Saudita è uno degli ac­quirenti più dinamici e nel 2018 sono state concesse 13 autoriz­zazioni alla esportazione per un valore superiore ai 13milioni di euro. Per quanto riguarda invece gli Emirati Arabi Uniti ne sono state rilasciate 25 per un valore di 220 milioni di euro».

Secondo i dati del Sipri tra il 2013 e il 2017 il nostro Paese si è classificato
al nono posto tra i primi dieci fornitori di armamenti a livello internazionale

 

La legge italiana impedisce l’esportazione di armi a pae­si in guerra o a paesi che non rispettano i diritti umani. Un caso esemplare è l’esportazio­ne di armi all’Arabia Saudita che è in guerra con lo Yemen.
«Come ho cercato di spiegare, esistono norme nazionali e inter­nazionali in materia, ma l’espor­tazione di armi è saldamente nelle mani degli Stati nazionali, che non sempre si attengono alle disposizioni sovranazionali. Pe­raltro, si tratta di un problema che non riguarda solo l’Italia. Ci sono paesi come la Germania e la Francia che continuano a sti­pulare accordi commerciali per la vendita di armi con paesi le cui condizioni politico-istituzio­nali sarebbero incompatibili con gli standard fissati dalla norma­tiva europea».

Accanto al sistema di espor­tazione di sistemi d’arma in modo più o meno regolare esiste un mercato clandestino delle armi?
«Sì, ed è un fenomeno che ri­guarda in particolare alcuni sistemi d’arma, come le armi piccole e leggere. In quest’ulti­mo caso esistono reti di traffico illecito radicate nei Balcani, nel Maghreb e in Medio Oriente. Come evidenziato da un recente rapporto di Archivio Disarmo, la dimensione del traffico ille­cito di armi leggere si svolge a livello regionale, attraverso for­niture contenute ma continue che risultano in un progressi­vo accumulo di armi. Altret­tanto rilevante è il ruolo svolto dal web, che crea un ulteriore luogo di incontro tra domanda e offerta, e da strumenti come le criptovalute che agevolano l’acquisizione di armi da parte di utilizzatori non conformi al diritto».

Come arrivano e da chi vengo­no fornite le armi ai terroristi?
image 146«Occorrerebbe fare un discorso particolare per le diverse orga­nizzazioni terroristiche. In ge­nerale, è possibile affermare che i gruppi fondamentalisti spes­so riescono ad avere accesso a partite di armi originariamente prodotte legalmente ma che suc­cessivamente, tramite lo sfrutta­mento di relazioni di corruzione con i funzionari degli Stati di provenienza, transito e desti­nazione, arrivano nelle mani di gruppi armati non-statali. Que­sto tipo di transazione, che si approfitta di una corruzione en­demica, caratterizza ad esempio il traffico di armi che dai paesi dell’ex Unione Sovietica sono trasferite verso zone di conflitto in Africa. Esiste poi un merca­to propriamente illegale, in cui venditore e acquirente sono del tutto privi di status legale per ef­fettuare il commercio. È chiaro che la mancanza di un controllo statale stringente (caratteristica presente in Stati falliti come la Libia) agevola il consolidarsi di canali commerciali illeciti».

 

di Benedetta Giuliani. Collabora all'Istituto Archivio Disarmo

 

PRETI CON LE STELLINE

PRETI STELLINE

 

Nonostante l’Italia sia una repubblica laica e acon­fessionale dove non vige una religione ufficiale di Stato, i successivi con­cordati con il Vaticano (compre­so l’ultimo rinnovato da Craxi nel 1984) prevedono un servizio di assistenza spirituale alle forze ar­mate affidato a sacerdoti cattolici in qualità di cappellani militari. Il loro status, nor­mato dalla legge italiana nel 1961 (governo Fanfani, Andreotti alla Di­fesa), è quello di generali e ufficiali superiori con i re­lativi trattamenti economici a cari­co dello Stato Ita­liano.Fin da subito,

il nuovo Ordinario militare italia­no nominato da Papa Francesco, l’arcivescovo Santo Marcianò, si era detto disponibile a riformare l’istituto dei cappellani militari, aprendo alla possibilità della ri­nuncia agli alti gradi militari e ai conseguenti alti stipendi a carico della Difesa. Lo stesso aveva fatto il suo Vicario, monsignor Ange­lo Frigerio. Nel 2015 il Vaticano annuncia la costituzione di una Commissione paritetica bilatera­le tra Stato italiano e Santa Sede con l’obiettivo di presentare una proposta di riforma al Parlamen­to entro la fine del 2016, incen­trata su una loro riduzione del numero dei preti con le stellette. Ad oggi nulla è cambiato: alle parole non sono seguiti i fatti, e non ci sono più notizie sull’esi­to dei lavori della Commissione paritetica

La smilitarizzazione dei cappellani appare ancora un obiettivo lontano. 


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