Scovo proprio sotto casa il mio buen retiro, l’angolo dove aggiorno il diario e assaporo l’animazione del quartiere. È il piccolo Café Poët che ha due ingressi, uno sul nostro vicolo, l’altro che s’affaccia sulla Croisette. A fianco c’è uno spaccio di tabacchi e giornali e quindi non m’occorre altro. Lo gestiscono due baffuti e spiritosi quarantenni che anche dalle foto esposte alle pareti - casti nudi di atleti anni ’60 - potrebbero essere gay. Gli avventori sono la gente del posto, vecchiette che fumano come “turche”, pescivendoli e ortolani del vicino mercato, muratori e carpentieri maghrebini che lavorano alla ripavimentazione del lungomare perché mancano dieci giorni all’inaugurazione della 72° edizione del Festival del Cinema. Ci godiamo quindi con Carlo una Cannes genuina e tranquilla, prima dell’arrivo delle orde cinematografare. Ma quanto l’abbiamo amato con Babilonia questo festival! Con le puntuali e appassionate cronache di Andrea Pastor che riusciva a stanare, tra le pellicole di tutto il mondo, le più “invisibili” e censurate perché di tema (o sguardo) omoerotico. Era un’altra epoca: la notizia odorava di faticosi spostamenti in treno, d’interviste inseguite, di rotative e inchiostro, e Internet neanche era all’orizzonte. È il Primo Maggio e su Liberation leggo la cronaca delle manifestazioni dei gilets jaunes a Montparnasse e alla Contrescarpe funestate dalle violenze dei black-bloc che hanno assalito il reparto d’animazione d’un ospedale, difeso da medici e infermieri. Il giorno dopo si rivelerà una “ bufala” ma intanto ha fomentato lo sdegno dei commercianti e degli abitanti, stufi delle proteste. D’accordo con Carlo decidiamo di raggiungere Villefranche-sur-mer, e in stazione m’accorgo con raccapriccio che non esistono più sportelli per acquistare il biglietto ma tutto è automatizzato tramite macchine distributrici. Per me che appartengo al Giurassico sono un rebus. Per fortuna l’amico è più pratico e aggiornato e saliamo sul trenino che si ferma a tutte le stazioni balneari, Juan- les- pins, Antibes, Cagnes-sur- mer, Nizza che sono apparizioni tra un cielo e un mare di turchese. La vista di Villefranche è superba, adagiata su un costone a precipizio sul mare e dove spuntano, immerse nel verde, le sfarzose ville d’inizio Ottocento dell’aristocrazia russa e inglese. E tra queste anche quella, mi dice Carlo, della madre di Jacques Guérin. Quale sarà stata?
TRA SACRO E PROFANO Scendiamo a piedi fino al porto dove un busto in bronzo di Jean Cocteau domina il bordo del mare col fascino accigliato d’un’antica erma. È invece un’opera del 1989 dello scultore Cyril de la Patellière. Di fronte c’è il mitico Hôtel Welcome che in origine era un convento con annesso cimitero e il cui fascino gotico ha attratto artisti come Picasso, Sutherland, Stravinsky (vi compose la musica di Oedipus Rex) e lo stesso Cocteau che nel 1924, distrutto dalla morte dell’amato Radiguet, ne fece la sua seconda casa occupando la stanza 22. Davanti sorge la romanica Cappella di San Pietro dei Pescatori del XII sec. che Cocteau ha decorato a fresco nel 1957 con l’aiuto del pittore Jean-Paul Brusset. In realtà più che una cappella sembra un tempio massonico, con triangoli, angeli caduti e le fiamme dei candelabri dell’Apocalisse, realizzati in ceramica, trasformate in enigmatici occhi sbarrati. Sui muri e sull’abside episodi della vita di San Pietro e scene del Mediterraneo scanditi in sequenza cinematografica. Si fronteggiano il Sacro e il Profano. L’apostolo imprigionato da Erode e liberato dall’angelo; la serva che lo accusa dei 3 rinnegamenti mentre il gallo canta; il santo che cammina sulle acque sostenuto da un angelo, e Cristo che benedice pescatori e pesci increduli, con la cittadella sullo sfondo. All’ingresso, sulle pareti, il racconto pagano: le ragazze di Villefranche in costume tradizionale e ceste di pescato, e i pescatori dai lunghi capelli, i lobi inanellati e gli occhi a forma di pesce. Più esoterico e sentito è l’omaggio ai gitani di Saintes-Marias- de la Mer: la nipote del celebre Manitas de Plata scatenata nel flamenco, il giovane chitarrista è una strizzata d’occhio a Django Reinhardt, e la ragazzina dietro la balconata è Carole, la figlia di Francine Weisweiller. Che fu intima amica e mecenate di Cocteau ospitandolo spesso nella villa Santo- Sospir a Saint- Jean-Cap- Ferrat. Per gratitudine e anche per sfida l’artista decise nel 1950 di lasciarvi la sua impronta. Le porte le aveva già dipinte Picasso da entrambi i lati e Cocteau, incoraggiato da Matisse, s’impossessò delle stanze e dei corridoi col racconto elegante e numinoso, come il suo segno, dei miti del Sole, del Centauro e dell’Unicorno, Narciso e la ninfa Eco, Diana che sorpresa nuda da Atteone lo trasforma in cervo, l’ebbrezza di Dioniso e delle Baccanti. Geniale anche la definizione che l’artista coniò: “la villa tatuata”. Chiedo alla compassata signora bionda che è a guardia della Cappella e inesorabile m’ha proibito di scattare foto se conosce gli orari per visitarla. Cortese afferra il telefono - “Sono Marie- France!” - dall’altro capo: la villa è stata acquistata da un magnate armeno ed è in ristrutturazione per tutto il 2020 - “Quel dommage!” mi fa dispiaciuta. Il lettore però trova in rete un cortometraggio a colori del ‘52, sottofondo di Bach e Vivaldi, dove Cocteau da perfetto anfitrione, bleu-jeans e l’eterna sigaretta accesa, prende per mano lo spettatore e lo guida tra i “tatuaggi” e il dedalo di stanze dell’abitazione , nell’atelier dove ha lavorato e nel lussureggiante giardino fino a presentargli la stessa padrona di casa, Francine che giovane e sorridente si gode l’incanto di villa Santo-Sospir. A noi negato (per ora).
LA VIA OSCURA Ci rifocilliamo con un misto di salumi e formaggi e un bicchiere di vino sulla veranda del Welcome. All’ingresso, sul pavimento, un mosaico tratto dal disegno che Cocteau donò ai proprietari e nella hall le foto dei tanti illustri frequentatori. Tra cui anche Kiki de Montparnasse e Wiston Churchill. Con Carlo ci inerpichiamo su per una ripida gradinata che porta al centro del paese ed esalta dall’alto la ragnatela di stradine tortuose e rampe di scale che lo percorrono in verticale. In basso sul porto della Darsena si staglia l’imponente edificio dell’Osservatorio Oceanologico e sulla costa frastagliata s’intravedono piccole baie di sogno con grappoli di casette abbarbicate ai piedi della montagna. Si comprende allora il fascino e l’importanza strategica del luogo che suggerirono nel 1295 a Carlo II d’Angiò, Re di Napoli e Conte di Provenza, di favorire l’insediamento concedendo agli abitanti una franchigia sulle tasse. E lo chiamò Villa Franca. Dopo una bella scarpinata ci troviamo muti e intimiditi davanti all’ingresso della Rue Obscure che è il più suggestivo e misterioso dei vicoli che intersecano il nocciolo medievale. Sembra di entrare dentro una catacomba o un antro cieco che la fioca illuminazione rende spettrali. C’è il brivido del transito in un’altra dimensione Ne fu affascinato anche Cocteau che nel film Il testamento d’Orfeo ambientò qui l’incontro con il suo “doppio”. Sono appena 130m. di buio e di ruvido acciottolato, ma come riemergi alla luce ti sembra di tornare nel mondo dei vivi. Rientrati col trenino a Cannes, una doccia per riprendersi e poi cena all’altro “Chez Astoux”, che ha per insegna un mosaico marino con una spettacolare piovra azzurra. Qui Carlo si lascia andare a un capriccio da gourmand ordinando un’aragosta di 800gr. che viene esibita viva al tavolo per la foto di rito da mostrare agli assenti e agli increduli. Accompagna la portata un kit di strumenti: le pinze, a forma di schiaccianoci, per rompere le zampe e le chele, una sottilissima forchetta per estrarre la polpa e una pila di salviette per pulirsi. Sarà anche una prelibatezza l’aragosta - gli intenditori vanno matti per il tomalley (il fegato) e c’è chi non disdegna neppure il corallo amaro della femmina - ma mangiarla è un’impresa perché vanno incisi la coda e il carapace per estrarne la carne col rischio di sbrodolarsi come poppanti di burro fuso. Un azzardo che evito, ordinando ostriche Gillardeaux e zuppa di pesce. Cena al tavolo accanto una coppia di trentenni russi che non passa inosservata. Lui, capelli biondi a spazzola e fisico da buttafuori, T-shirt scolpita dai pettorali e jeans. Lei, mora procace, pantaloni e bustier di pelle nera attillatissimi, e una specie di mantiglia col bordo di pelliccia. Tra coccole, dita intrecciate e grandi risate hanno ingurgitato dozzine di ostriche innaffiandole di Sancerre e bicchierini di vodka. A ogni comanda si precipita premuroso un cameriere rosso e lentigginoso che per due volte - sfacciatamente - fa occhiolino alla donna, alle spalle del compagno. È di sicuro incoraggiato dalla signora che si diverte ghiotta a sedurre entrambi. Poi è tutto uno sbracciarsi verso un’altra coppia russa che passa, anche questa d’un’eleganza vistosa, che congedano forse con un appuntamento. Non conosco il russo e ignoro come abbiano concluso la serata, ma al momento di pagare il conto l’uomo ha esibito un rotolo di banconote da 200 e 500 euro legate da un elastico. L’ha notato anche Carlo perché in Francia si usa poco il contante, si paga con la carta. In più il bancomat non rilascia biglietti di quella taglia. L’unica spiegazione è che il russo sia ricorso al cash per non lasciare tracce e restare anonimo, cioè invisibile. O anche questo è solo frutto della mia immaginazione?
di Ivan Teobaldelli