Il confine tra Siria e Turchia è un territorio in cui la guerra continua ancora. Ne parliamo con Lucia Goracci, reporter del TG3 che conosce da vicino la situazione mediorientale. Le chiediamo di descriverci cosa succede nella zona di Iblid tra siriani e turchi. «Iblid è l’ultima provincia in mano alla ribellione armata contro il governo di Assad, dove si concentrano quasi tre milioni di persone. Ogni volta che l’esercito governativo procedeva nella riconquista del territorio, tutti coloro che, civili e combattenti, non si fidavano della pax imposta dai vincitori migravano attraverso dei corridoi umanitari in direzione di Idlib, a bordo di quei bus verdi che abbiamo imparato a conoscere».
Iblid è stata l’ultima provincia ribelle?
«Certamente, ma si è radicalizzata negli anni. Non è un caso che Al Baghdadi sia stato scovato e ucciso da un bombardamento americano proprio qui. La città è da tempo oggetto di bombardamenti massicci dei governativi, con l’appoggio alleato russo, con parecchie vittime e con centinaia di migliaia di rifugiati. Si parla di 800mila rifugiati in fuga in direzione della frontiera turca, che peraltro è sigillata».
Cosa accade a queste persone?
«La Turchia manda aiuti, anche con organizzazioni non governative e i rifugiati si sono accampati sotto i bellissimi, un tempo, ulivi di Idlib, con una temperatura che arrivava sotto lo zero. È un dramma nel dramma, se consideriamo che in Siria ci sono sedici milioni di persone tra profughi e sfollati interni».
Come si comporta il cosiddetto Esercito Siriano Libero? «È una galassia di gruppi ribelli che combattono e resistono nella provincia di Iblib. Erdogan ha sollecitato Assad a fermare l’esercito siriano entro questo mese, altrimenti la Turchia riprenderà l’iniziativa militare nella zona, dove ha installato 12 postazioni militari per disarmare i “terroristi”, le frange jihadiste più estreme di questa galassia».
L’invasione da parte della Turchia su trenta chilometri di territorio siriano prelude a una annessione politica o quali obiettivi persegue? «Non si può considerare “invasione” perché è una presenza concordata da Erdogan e Putin nel settembre 2018 a Sochi, dove si dichiarava che Assad e i suoi alleati avrebbero fermato la loro offensiva su Idlib, a condizione che la Turchia aiutasse a neutralizzare e disarmare le frange più estremiste dei gruppi armati presenti nell’area».
Il governo siriano di tanto in tanto afferma che nessuno ha invitato l’esercito turco sul proprio territorio? «L’intesa era stata concordata e messa nero su bianco a Sochi; il governo di Ankara fin dall’inizio ha variamente appoggiato i gruppi ribelli, soprattutto nelle zone di Idlib e Aleppo. Attualmente l’intenzione di Erdogan è quella di internazionalizzare la crisi, sollecitando una presa di posizione dell’Europa – sempre molto sensibile sulla questione dei profughi che, nel 2015 l’anno del grande esodo attraverso i Balcani, quasi terremotò la casa europea. È un conflitto in cui Assad sta chiaramente vincendo, al prezzo però della distruzione materiale e di vite umane e con il rischio quindi che si riveli una vittoria di Pirro. Adesso a Idlib sono rimasti gli elementi più radicali tra le opposizioni armate. Sarà difficile stanarli da quella parte della Siria, penso che sarà un’operazione molto lunga».
Qual è il destino delle minoranze cristiane, yazide, curde dietro l’avanzata dell’esercito turco? È una guerra infinita che prelude al travolgimento di intere popolazioni? «I destini delle comunità cristiane nel nordest erano profondamente legati a quelli dei curdi perché il Califfato aveva preso di mira tutte le minoranze siriane, facendo scempio delle chiese e delle comunità. Le aveva obbligate a versare una tassa, mettendo in piedi una sorta di raket e moltissimi furono costretti a fuggire. I curdi li avevano liberati, anche affiancati nei combattimenti da milizie cristiane. Era una zona bellissima, che è stata in gran parte distrutta e quei cristiani sono fuggiti, con il rischio di non tornare mai più».
È la tragedia delle minoranze? «Per tutti gli altri c’è una tregua carica di tensione. Si è arrivati al paradosso per cui questi villaggi, liberati dal giogo dell’Isis, si sono ritrovati di nuovo sotto l’offensiva turca».
Nella guerra civile in Libia, Erdogan ha promesso sostegno e truppe per il governo di Tripoli. Qual è il disegno che si prefigge? «È un disegno che da alcuni viene descritto come neo-ottomano. Quando nel 2011 iniziò la guerra civile in Libia correva un secolo da quel 1911 in cui l’Impero ottomano perse la Libia a vantaggio dell’Italia. Suggestione storica, soprattutto per questo governo turco che è molto sensibile a quei richiami. Ma c’è anche l’elemento economico, non dimentichiamoci che quando iniziò la ribellione contro Gheddafi, miliardi di investimenti turchi vennero repentinamente interrotti».
Nel conflitto libico quale ruolo svolge la Turchia? «Il governo Al Sarraj ha una forte componente fratello-musulmana, il governo di Erdogan è sempre stato visto come l’espressione di un islam politico moderato e in lui queste forze vedono un riferimento politico. Ma sulla scena è comparso Haftar, il generale che si vanta di aver sconfitto l’Isis a Sirte, che ha cinto d’assedio Tripoli – e il governo che le Nazioni Unite riconoscono ufficialmente – e lo ha fatto con una buona dose di spregiudicatezza. Ha persino bombardato una caserma dove si trovavano giovanissimi cadetti. Erdogan afferma di essere stato l’unico che con mezzi e uomini ha sostenuto il governo di Al Sarraj, il solo legittimo. Haftar invece è appoggiato dall’Egitto, dagli Emirati, dalla Russia e più sfumatamente da Macron, presidente di una Francia che da un pezzo ha ambizioni sul petrolio libico. Il conflitto libico comunque non è mai evoluto in una pace vera, si è cronicizzato. Adesso c’è questo “cessate il fuoco” che sembra durare, anche se ci sono delle violazioni. Qui si inserisce anche il dramma dei migranti che vengono trattenuti in condizioni davvero estreme, coinvolti e schiacciati nelle vicende belliche».
Russia e Turchia si trovano in due campi opposti sulla vicenda libica. Dipende dalla necessità di accaparrarsi le fonti energetiche come il petrolio e quali disegni geopolitici perseguono? «Dal punto di vista storico l’Impero ottomano e quello zarista sono sempre stati in rotta di collisione, la loro geografia e le loro ambizioni politiche li hanno sempre portati in contrapposizione, fino anche allo scontro. Questa rivalità si è spostata anche in Siria. La Russia, alleata di Assad, ha di fatto scongiurato la caduta del suo governo da un lato, dall’altro la Turchia ha visto i suoi ribelli costretti città dopo città a ripiegamenti territoriali. Infine, i due paesi sono giunti a un tentativo di spartizione della Siria in zone di influenza».
Questo modus operandi lo si potrebbe trovare anche in Libia? «È più difficile perché certi attori sul terreno si muovono anche in maniera autonoma. Ma il rischio di una contrapposizione tra Turchia e Russia esiste anche se entrambi quei governi sanno di non poter e di non avere interesse a entrare in conflitto tra loro».
Lei ritiene che il Daesh sia ormai sconfitto o riaffiori anche nelle zone più periferiche della Siria e dell’Iraq? «L’Isis è territorialmente sconfitto ma non estirpato. C’è un altro califfo che ha preso il posto di Al Baghdadi e soprattutto le condizioni umane e socio-economiche che permisero la genesi del Califfato sono rimaste e forse sono persino esasperate. Il Califfato è stato sconfitto, i combattenti sono stati uccisi o incarcerati, ma si stima che un terzo di loro siano riusciti a darsi alla macchia e persistono ancora condizioni di instabilità politica e di distruzione materiale».
Pensiamo a Mosul, a Raqqa, città che per essere liberate dall’Isis sono state distrutte? «Certo. È iniziata una lenta ricostruzione, ma su questo si è inserita la vicenda dell’uccisione del generale iraniano Soleimani, per mano statunitense, in Iraq, che ha portato il Parlamento di Baghdad a chiedere l’espulsione delle truppe straniere dal Paese. Questo ha sospeso sine die le attività congiunte di contrasto del terrorismo, ma a rischio è l’intera macchina della ricostruzione post bellica. La missione archeologica italiana impegnata nel museo nazionale di Baghdad, per fare solo un esempio, ha dovuto lasciare l’Iraq e far ritorno in Italia.Una pace incompleta e non consolidata sotto il profilo socio-economico getta le premesse per un ritorno dell’Isis, che già si sta facendo sentire, soprattutto nelle zone di confine. Non ci sono al momento condizioni che autorizzino a confidare in una stabilizzazione e una pace durature».
IRAN: Informazioni di contesto Popolazione: 80 milioni di abitanti, la metà ha meno di 35 anni. Religione: islam sciita e della tradizione persiana, in opposizione all’islam sunnita Sistema politico coniuga: autocrazia clericale e libertà politica. Struttura istituzionale Componente Islamica: espressione della volontà divina. Membri religiosi composti da: Guida Suprema: Carica più importante del regime. Consiglio dei Guardiani: Composto da 12 membri. Assemblea degli Esperti Componente Repubblicana: Presidente della Repubblica: Capo del potere esecutivo. Parlamento: Eletto a suffragio universale. Composto da 270 membri. Ha funzione di controllo sull’esecutivo. Pasdaran: forze militari indipendenti dall’esercito, guardiani dei valori della Rivoluzione. Esponenti del Potere Economico: Banche e Fondazioni Bonyad. Gran parte del sistema bancario iraniano è in mano a queste fondazioni e ai Pasdaran. Rappresentanti del mondo del lavoro: Sindacati, associazioni professionali. Cenni Storici 1925: insediamento della dinastia Pahlavi. 1925-1941: Prima fase del regno di Reza Pahlavi=forte impulso nazionalista, secolare e anticlericale. 1941: Reza Shah abdica in favore del figlio Mohammed Pahlavi. 1941-1953: periodo segnato da apertura politica e libertà religiosa. 1951: Mossadeq diventa primo ministro: nazionalizzazione del petrolio diritto di voto alle donne. 1953: Operazione della CIA e caduta del governo Mossadeq. 1953-1979: ritorno a politiche autoritarie. 1963: primo fallito colpo di stato di Komehini, che verrà esiliato 1973: crisi petrolifera gobale. 1979: Rivoluzione Komehinista: applicazione della shari’a. I Pasdaran diventano il braccio armato della Rivoluzione. 1980-1988: Guerra Iran/Iraq, contro l’espansione dello sciismo. 1989: Morte di Komehini: nomina di Rafsanjani Presidente della Repubblica e di Khamenei a Guida della Rivoluzione. 2005: elezione di Ahmadinejad: scelta nucleare per proteggersi da Israele e Pakistan. 2013: Elezione di Rohani. 2015: Firma del JCPOA. 2019: repressione proteste in seguito all’eliminazione dei sussidi sul consumo di petrolio. 2020: uccisione di Soleimani → l’Iran esce dal JCPOA. |