Scuola. La pandemia obbliga a ripensare tutte le relazioni sociali
La pandemia non è soltanto l’esito di una malattia che si diffonde. È anche un processo sociale perché il virus che produce il fenomeno non determina solo malattia, dolori, morti.
La pandemia colpisce le persone, ne condiziona il modo di pensare, agire, vivere, relazionarsi con se stesse e gli altri. Mette in crisi le sicurezze esistenziali ed economiche, accentua le insicurezze già presenti prima, rende incerto il futuro, accentua le debolezze, rischia di separare piuttosto che unire le persone, rende esplosiva la separazione tra i garantiti e i meno garantiti.
La complicata gestione sanitaria della pandemia ci fa consapevoli che essa è un fenomeno sociale con effetti complessivi, non solo sanitari, sulle persone. Per queste ragioni, anche nei mesi scorsi, non sono mancate perplessità su una gestione istituzionale del processo di contenimento del virus, tutto centrato sulla salute intesa come assenza di malattia e difesa dal rischio virus. Siamo, tuttavia, convinti che le misure anti-Covid, centrate sul principio della massima precauzione per la sicurezza di tutti, siano giuste. Ciò che è mancato e continua a mancare è la capacità di comunicare quelle misure, avendo a riferimento le persone e non il virus, a cominciare dalle parole usate: “distanziamento sociale” anziché “distanziamento interpersonale”!
Ci chiediamo: il confinamento - oltre a difenderci dal virus - può aver prodotto, in particolare per i più piccoli, qualche effetto positivo? Forse sì, almeno in alcuni contesti: tempi più rilassati e meno stressati della vita quotidiana; possibilità di godere di cure parentali più presenti e calde; possibilità di misurarsi di più con la necessità di rispettare alcune regole per evitare che la vicinanza “forzata” crei tensione; la scoperta interessante, se guidata, di una casa fatta di oggetti, piccoli lavori e creatività da condividere con i propri cari. Ma il confinamento, sempre con particolare riferimento ai più piccoli e soprattutto a quella parte che vive in famiglie disagiate, può avere prodotto processi negativi: deprivazione motoria, cognitiva, ansia, paura, contatto magari anche solo attraverso immagini con la morte; e per i più grandi, difficoltà nella relazione attraverso il video per assenza di device, strumenti, connessioni; oppure disagio per non avere spazi adatti a una comunicazione on line. E negli appartamenti di modeste dimensioni tutte le difficoltà si sono accentuate, rendendo ancora più esplicite e pesanti le diseguaglianze reali.
Prendiamo in esame la condizione dei più piccoli. Considero grave e per me imperdonabile che la scuola non abbia neppure pensato e tentato di marcare una qualche presenza nel periodo tra maggio ed agosto.
In tutta Europa ci sono stati tentativi ed esperienze di questo tipo. Penso che con tutte le precauzioni del caso (piccoli gruppi a rotazione, con utilizzo prioritario di spazi aperti protetti, una-due volte a settimana, con i dispostivi di protezione e a partire dalle zone meno esposte al virus), sarebbe stato possibile mantenere viva e vitale una relazione tra la scuola, le famiglie, il territorio. Azioni che avrebbero dato un senso diverso, nella scuola primaria, persino alla didattica a distanza, sottoposta almeno a verifiche periodiche in presenza e alla rielaborazione in gruppo. Avremmo anche così sperimentato modalità di rientro, partendo dalle zone meno contaminate e con piccoli numeri, partendo dal basso e dalla creatività degli educatori. E saremmo anche riusciti a mantenere un filo di intenzionalità educativa, di studio, di pensiero, evitando una pausa che di fatto, dal punto di vista cognitivo, è stata talmente prolungata da aver compromesso, certamente nelle fasce più deboli, l’esito di un intero anno scolastico. Altro che debiti degli studenti e richiamo ai voti decimali!
E veniamo al 14 settembre. Non si torna a scuola come se non fosse successo nulla. La ricerca comprensibile della “normalità” (intesa come tranquillità, sicurezza, ripresa di gesti e routine rassicuranti) non può passare attraverso una rimozione di massa di esperienze così profonde e sofferte. È questo il delicatissimo compito che attende gli insegnanti. Perché subito dopo i banchi (con rotelle o meno), le rime buccali, le mascherine, i percorsi segnalati, il medico scolastico, i trasporti, le aule e i bagni, i responsabili delle diverse funzioni, i lavoratori “fragili” e i test sierologici, gli organici, le nomine, arrivano “loro”: alunni ed alunne di ogni età, quella umanità di cui abbiamo reclamato la vicinanza nei mesi del distanziamento forzato. Alunni e alunne che tornano a scuola pieni di esperienze anche dure, ma ricchi anche di attese. Pieni, però, non vuoti di lacune. Si avverte la mancanza di uno sguardo pedagogico; la capacità di saper coniugare sicurezza e didattica, di recuperare un valore pieno alla relazione educativa e provare una progettualità educativa nella straordinarietà. Perché nulla di questo presente è normale. Fingere un rientro solo sanitarizzato, come se niente fosse successo sul piano umano, sociale e pedagogico, è il principale rischio per chi si occupi di rientro a scuola. Un rientro che vogliamo il più positivo possibile nelle condizioni date. Ce lo chiede quest’epoca del tutto straordinaria, senza precedenti, nella quale la navigazione verso un porto educativo giusto ha bisogno di pensare insieme le rotte, come evitare i rischi, come cercare il vento giusto. Forse la verità più profonda di questa fase è proprio questo nuovo bisogno di un progetto per il futuro. ◘
Di Dario Missaglia