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20 anni di Boteguita

silvia romano2

Era il settembre del 2000. Il tradizionale convegno de l'altrapagina, allora ospitato a Villa Montesca, aveva come titolo “Economia come Teologia”. Ai margini del convegno, all’ombra degli alberi secolari del parco, tre amici, obiettori di coscienza inquieti, si dissero che doveva esserci un tempo per l’ascolto e la riflessione, ma anche uno per l’azione.

I relatori avevano appena parlato di quello che era sotto gli occhi di tutti, di come l’economia fosse diventata la nuova religione universale e di come in nome di questo nuovo totem si potessero ignorare diritti umani e sostenibilità ambientale. Ma data la spiacevole constatazione che, per dirlo con Gandhi, “la terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di pochi”, la conseguenza di questa economia di dominio è che quasi un miliardo di persone vive con meno di un dollaro al giorno e altri due miliardi con poco più. Le stime dicono che questo significa 20/30.000 morti per malnutrizione ogni giorno.

Nella mente dei tre amici era chiaro che, se volevano mettersi in gioco, dovevano tentare di intaccare quel meccanismo di sfruttamento. La loro risposta fu conseguente: aprire una bottega di commercio equo. Il progetto non doveva essere però ristretto e individuale: tutta la città doveva essere coinvolta e partecipare coralmente. Per questo nei mesi successivi si muovono per ricercare il maggior numero di alleati possibili in persone, associazioni, istituzioni e sindacati e nel gennaio successivo, con 106 soci fondatori tra cui la Cgil, due cooperative sociali, la Caritas e le Piccole Ancelle del Sacro Cuore, prende forma l’Associazione “La Boteguita”.

Tra questi 106 soci fondatori una trentina si dicono disponibili a impegnarsi come volontari nel lavoro di gestione, e il pomeriggio del 5 maggio 2001 il punto vendita, tra concerti e degustazioni, apre ufficialmente. In meno di 4 ore si incassano 4 milioni di lire. Nei restanti nove mesi del 2001 quasi 200 milioni.

La città aveva risposto. Quella economia, che uno dei tre amici ha sempre definito come “profetica e rivoluzionaria”, stava dimostrando di essere matura e di poter cambiare davvero il destino delle persone.

Dietro a quei primi 200 milioni di caffè, di the, di cioccolate e ceste vendute ci sono storie di centinaia, di migliaia di persone che in Ghana o in Costa d’Avorio, in Bangladesh o in Sri Lanka sono uscite dalla povertà. Ci sono bambini di famiglie povere che, invece di andare a lavorare, sono potuti andare a scuola, ci sono storie di ospedali e pozzi di acqua potabile costruiti con il premio fair trade; ci sono comunità di contadini e artigiani che hanno sperimentato la gestione democratica del loro lavoro e la parità di genere. E senza che nessuno dalle nostre parti si sia impoverito.

E cosa c’è dietro a questo risultato semplice e sorprendente? Non c’è niente di più se non l’introduzione, anche in economia, di un concetto evidente nei rapporti umani: il rispetto dei diritti umani e la non prevaricazione. In economia invece prevaricare si può. Nel fissare i prezzi delle materie prime e del lavoro di braccianti e operai nelle fabbriche tessili o di scarpe sparse in tutta l’Asia non conta il soddisfacimento dei bisogni elementari delle persone coinvolte, ma il raggiungimento del massimo profitto. Stabilire un prezzo delle merci che non presupponga salari da fame è il primo e decisivo passo per far uscire dalla miseria i diseredati del mondo. E questo ci costerebbe davvero poco.

In Malawi, Paese in cui sono attivi progetti di cooperazione che "La Boteguita" segue da vicino, un bracciante nelle piantagioni inglesi di the guadagna per 10 ore di lavoro 80 centesimi di euro. Il costo del lavoro di questo bracciante incide nella formazione finale del prezzo per circa il 3 per cento. Poniamo che il latifondista inglese raddoppi il salario dei suoi lavoratori e tenendo fermi tutti gli altri elementi del prezzo (profitto compreso); basterebbe che aumentasse del 3% il prezzo finale, per esempio da un euro a un euro e tre centesimi.

Manderebbe in crisi la nostra economia? Non scherziamo. Ma cambierebbe la vita al bracciante. E stesso discorso si potrebbe fare per le nostre scarpe di marca fabbricate in Vietnam o in Indonesia, per il cacao della Costa d’Avorio o per il caffè dell’Etiopia.

Ciò che manca è una economia di giustizia. Ed è questo ciò che fa “La Boteguita” da 20 anni. Con più di 100 volontari che si sono alternati nella sua gestione, offrendo il proprio tempo nella promozione e nella cura di un progetto che vuol essere culturale, oltre che commerciale. Con la sua presenza in piazza, la bottega e i suoi volontari vogliono testimoniare che esiste una via di uscita al capitalismo selvaggio e ai suoi costi sociali e ambientali. E che non si può parlare di rispetto dei diritti umani se non partiamo da una trasformazione radicale dell’economia. ◘

di Roberto Colombo


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