SAHEL. Gli interrogativi che nel deserto fioriscono ancora.
Il 6 agosto 1945 la città di Hiroshima in Giappone veniva distrutta dalla bomba statunitense denominata “Little boy” e pochi giorni dopo, il 9 agosto, Nagasaki subiva la stessa sorte con “Fat man”. Iniziava così l’era degli armamenti nucleari, che sarebbero in breve proliferati negli arsenali di vari Stati, arrivando nel corso della Guerra fredda all’astronomica cifra di circa 70.000 testate, per lo più in mano a Washington e Mosca.
E questo è avvenuto nonostante che fosse stato firmato nel 1968 il Trattato di Non Proliferazione, che richiede ai Paesi firmatari d’impegnarsi per il disarmo e per l’uso dell’energia nucleare solo a fini pacifici. Con la fine del bipolarismo gli arsenali nucleari si sono ridotti per quantità di testate, ma non dal punto di vista qualitativo. La ricerca di una maggiore precisione e potenza, nonché il miglioramento dei vettori, rimangono una politica seguita da tutte le potenze nucleari, come nel caso dei missili ipersonici, altra nuova frontiera della sfida militare.
Oltre 13.000 testate continuano a permanere negli arsenali e quasi 4.000 di esse sono immediatamente operative, pronte a distruggere il mondo. Consideriamo anche che l’adozione di sistemi d’intelligenza artificiale in questo settore, pur offrendo elevate capacità di analisi ed elaborazione dei dati, aumenta il rischio di un conflitto, dati i margini di errore e le vulnerabilità delle tecnologie informatiche, che potrebbe causare la distruzione dell’umanità.
Appare preoccupante la permanenza dell’opzione nucleare all’interno dei documenti strategici delle grandi potenze e anche della Nato, che ne ha recentemente ribadito l’importanza affermando “l’impegno a mantenere un mix appropriato di capacità di difesa nucleare, convenzionale e missilistica per la deterrenza e la difesa” (Comunicato del Consiglio Nord Atlantico, Bruxelles 14 giugno 2021).
La Quarta riunione ministeriale dell’Iniziativa di Stoccolma per il disarmo nucleare (Madrid, luglio 2021) ha visto i tre copresidenti (i ministri degli Esteri di Germania, Spagna e Norvegia, Heiko Maas, Arancha González Laya e Ann Linde) lanciare un pubblico appello per ridurre in quantità apprezzabile il numero di testate e per “una nuova generazione di accordi sul controllo degli armamenti” strategici. Il ministro tedesco Maas ha dichiarato che “dobbiamo costruire questo ora, attraverso passi chiari con cui gli Stati dotati di armi nucleari adempiano al loro obbligo e responsabilità di disarmare”.
Come si può notare, anche Paesi alleati Nato e filooccidentali richiedono a gran voce un cambio di passo decisivo per il disarmo nucleare, visto che dopo mezzo secolo dalla firma del Tnp l’obiettivo finale è ancora lontano ed imprecisato nei tempi. Non è un caso che da parte di oltre 120 Paesi, stanchi delle lentezze e delle ambiguità delle potenze nucleari, sia stato poi approvato all’Onu nel 2017 il Tpnw, che prevede un disarmo nucleare immediato da parte degli aderenti.
Il Tpnw, entrato in vigore quest’anno, purtroppo vede l’assenza tra i firmatari anche dell’Italia, peraltro firmataria del Tnp, ma che ospita in Italia (basi di Aviano e Ghedi) decine di testate di bombe statunitensi B-61, destinate ad un’eventuale guerra tattica di teatro, da combattere in Europa, cioè a casa nostra. Questa dotazione di bombe B-61 presso alcuni Paesi europei è uno dei motivi ostativi ad un dialogo con Mosca, la quale procede anch’essa nel rinnovo del proprio arsenale nucleare.
È necessario che i colloqui e le trattative tra le potenze nucleari, in particolare tra Stati Uniti e Russia, riprendano dopo un lungo periodo di silenzio. Altrettanto importante è che il governo italiano, anche con il sostegno della società civile, avvii un’azione il più possibile condivisa per impedire un’accettazione passiva della realtà degli arsenali nucleari, che costituiscono una grave minaccia alla sicurezza internazionale. ◘
di Maurizio Simoncelli - (Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo)