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Dal fuoco "a letto" all'osteria

Cronache d’epoca.

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Fedeli al proverbio che recita “Fino a Natale né freddo né fame, da Natale in là freddo e fame in quantità” il “prete” e la “pretina”si davano appuntamento, passate le feste natalizie, nelle gelide camere da letto, intrufolandosi tra le lenzuola. Sia ben chiaro subito, il “prete” è in legno e la “pretina” in coccio, quindi immuni da qualsiasi tentazione. “Prete”, nel dialetto tifernate, è chiamata quella intelaiatura arcuata in legno il cui compito è quello di sostenere la “pretina”, un recipiente in coccio, uno scaldino, contenente brace per riscaldare le lenzuola. Non ci sono più, il “prete” e la “pretina”, a essi va un grato ricordo per aver intiepidito la notte di tante generazioni di tifernati.

Fino agli anni ’50 del secolo scorso nella casa, fatte rare eccezioni, era riscaldata solo la cucina, con il focolare al quale più tardi darà una mano la stufa a legna o “cucina economica”. Molte erano le stanze “a tetto” che la tramontana trafiggeva senza pietà. In queste cucine grigie, per il fumo che aveva contaminato anche il canarino nella gabbia, la sera attorno al focolare i vecchi raccontavano le disfatte di Adua e Caporetto e i dolori della pellagra, bevendo vino che sapeva di aceto. La legna bruciava avvampando il viso, mentre il deretano gelava. Sopra il camino del focolare in bella mostra il pistarello del sale, il panaro, il macinino dell’orzo, che solo a Natale macinava caffè, in un angolo la madia dove si impastava e conservava il pane, più in là la credenza con sportelli a vetro dove erano incastrati santi con capofila San Florido e tanti ricordini di defunti. Troneggiava anche una coppia di sposi nel giorno delle nozze, quando avevano deciso di sentire freddo in due. Di giorno il focolare era quasi sempre spento, la legna bruciava troppo in fretta e la gente usciva di casa nei giorni di sole per andarsi a scaldare alla “solina”, era meglio che stare in casa. Le donne fra la gonna nascondevano lo scaldino che portavano anche in chiesa. Stavano alla “solina” anche muratori, scalpellini, fabbri, barocciai, non erano pensionati, ma disoccupati che attendevano la primavera, portatrice di lavoro.

Anche l’osteria era un rifugio accogliente. Erano tante le osterie, si rassomigliavano tutte in quegli anni '50 del secolo scorso. Quattro tavolini in legno bruciacchiati da chi sopra ci smorzava il sigaro o vuotava la pipa; una decina di sgabelli con un buco al centro dove si infilava una mano per spostarli agevolmente. Lungo le pareti alcune panche in legno rese lucide dallo strofinio di chissà quanti fondoschiena, in fondo il bancone per la mescita, con il piano in marmo grigio striato di nero, dove era allineata e capovolta una dozzina di bicchieri in attesa di essere riempita; un boccale in coccio verdastro contenente vino, coperto da una candida pezzuola di panno; una bacinella zincata piena di acqua per risciacquare i bicchieri e il giovedì metterci “a mollo” il baccalà per la colazione del giorno dopo, venerdì di vigilia. In alto, dietro il bancone, su alcune mensole tra i fiaschi di vin santo e canajola, la sagoma di legno di un omino gobbo segnatempo: l’alzarsi o abbassarsi del braccio segnava il buono o il cattivo tempo. Più in là, appesi ai castagnoli del soffitto, dei legni a mo’ di uncini, nel periodo di Quaresima, inanellavano torcoletti all’anice, accanto una piccola cesta di vimini con dentro qualche uovo sodo. Due inascoltati cartelli invitavano a non bestemmiare e, contro la tubercolosi, a non sputare per terra: allora gli avventori dell’osteria sputavano sul braciere che d’inverno scaldava il locale. Ci sputavano tutti facendo friggere la brace che diventava nera per poi tornare accesa come prima. Ci si abitua a tutto. Ad altezza di uomo dei quadretti che incorniciavano carta vetra usata per “scriccare” fulminanti (fiammiferi) per accendere la pipa, mezzo sigaro, qualche rara sigaretta. D’estate, dal centro del soffitto, sinuosamente scendeva un serpente di carta moschicida, nero di mosche che lì avevano trovato la loro fine. Una lampadina dalla luce rossastra e un minuscolo spicchio di cielo riuscito a intrufolarsi da una finestrella su in alto, illuminavano una gatta dal lungo pelo, che mai si era sognata di prendere un topo, acciambellata sopra uno sdrucito cuscino. Torniamo nel focolare della cucina. La legna si era trasformata in brace che la “paletta” raccoglieva per riempire la “pretina” in coccio, manufatto del cocciaio Manlio Tofani. La “pretina” veniva portata nella camera dove il “prete” stava ad aspettarla. Le lenzuola si intiepidivano piano piano. Ora il letto era caldo. Il “prete” e la “pretina” lasciavano il posto a chi subito si addormentava sognando che dalle mani e dai piedi scomparissero i geloni. ◘

di Dino Marinelli


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