Cronache d'epoca.
La primavera, in questi giorni di giugno, se ne sta andando e lascia all’estate il profumo intenso e gradevole degli alberi di tiglio. Qualcuno ha scritto: «Il profumo del tiglio scalda il cuore e rasserena la mente che ti fa dimenticare l’inverno e ti scaraventa nell’estate». Quando la primavera muore, i fiori di questi alberi spandono un effluvio dolciastro, inebriante come un buon bicchiere di vino.
Dalla vecchia Tiferno, appena fuori Porta San Giacomo, questi annosi alberi cominciano ad accompagnare con il loro profumo le cinquecentesche mura che cingono la città fino a Porta Santa Maria. Certo, oggi, il loro profumo non è forte come quando erano giovani loro e noi, quasi ottanta anni fa. Un profumo che va oltre la sua essenza e che racchiude frammenti di vita che ricordano quando ai piedi di queste antiche mura esistevano le “fosse”, retaggio di tempi lontani. Di quando, queste “fosse” colme d’acqua, erano una difesa per impedire la scalata delle mura al nemico. “Fosse” oggi sepolte dal bitume che soffoca bellicosi ricordi. I grandi raccontavano ai giovani di ottanta anni fa che in quella misera acqua piovana, che ancora le “fosse” riuscivano a raccogliere, si annidavano terrificanti serpenti e salamandre… E la fantasia dei ragazzi di allora correva a briglie sciolte, si amplificava e distorceva, complici quei fumetti che leggevano sull’avventuroso. E la notte, tra i tigli e le antiche, mura in quella misera e stagnate acqua, si alzava uno sgangherato concerto di rane. Gracidavano i batraci, ma loro erano convinti di emettere melodiose armonie. Succede anche agli uomini. Il profumo del tiglio valicava le antiche mura, inondava il Rione di San Giacomo, si spandeva giù, giù, oltre la caserma dei Carabinieri, oggi biblioteca, si insinuava nella ragnatela dei vicoli dove alla sera le ragazze giocavano a “sassetto”, a “campanone”, ai “quattro cantoni”, e con i ragazzi a “palla prigioniera”.
Le donne anziane, soprattutto per la fatica e non per gli anni, dopocena al fresco del vicolo, sedute su vecchie sedie rade di paglia o sullo scalino dell’uscio di casa, slargavano la lana per rigenerare il materazzo e raccontavano storie di ordinaria miseria. Alla bottega di generi alimentari il conto è grosso. “Una bella zuppa”. Quanto durerà la Giselda a darci la spesa a debito? Ad accontentarsi di segnare in quel libricino dalla copertina nera e dalle righe rosse: tre acciughe, mezz’etto di conserva, un chilo di patate? Oddio, se fida! Appena mio marito fa due giornate di lavoro le dò un acconto… Gli uomini, invece, stavano all’osteria, quella di Stefano nel corso, oggi negozio di biciclette di Tonino Giogli. E l’altra di Bichiacchiera fuori Porta San Giacomo, vicino ai tigli: giocavano a carte e bevevano vino. Bestemmiavano anche questi uomini, ma solo per rinforzare i discorsi. Da capo al vicolo giungeva gracchiante il suono di un vecchio grammofono: «…la porti un bacione a Firenze…». L’orologio della Madonna delle Grazie batte undici colpi. I vicoli si svuotano come le osterie.
Non è ancora l’alba quando Pietro Cenciarini, lo storico pescatore di fiume, piano piano per non svegliare il sonno di via Trastevere e quello delle monache del “Sacro Cuore”, con il qualandro dondolante in spalla, si avvia verso il Tevere. Giunge alle parti del “grattatrippa”. Mette il qualandro nell’acqua, si siede sopra una pietra sulla sponda del fiume, aspetta che qualcosa si impigli nel qualandro, accende la pipa, soffia un leggero venticello mentre se ne va l’ultima stella; manca solo il profumo del tiglio, che non va d’accordo con l’odore di tabacco sprigionato dalla pipa di Pietro Cenciarini, storico pescatore di fiume. ◘
Di Dino Marinelli