Scienza e società. Che cos’è un algoritmo? Il progresso tecnologico genera entusiasmi e paure. Ne parliamo con Andrea Tomasi, docente di Informatica all’Università di Pisa.
L’Intelligenza artificiale è la sfida tecnologica del futuro che tutti attendiamo curiosi, interessati, e anche un po’ ansiosi… In realtà, i sistemi intelligenti sono così diffusi e pervasivi, che ci siamo già dentro, al di là del nostro livello di consapevolezza. Pensiamo alle ricerche online, agli acquisti in rete, ai “semplici” termostati che regolano la temperatura degli ambienti, ai veicoli dotati di piloti automatici. Le case intelligenti e le città intelligenti sono già possibili. Nell’ambito della medicina e della chirurgia, i progressi in questa direzione sono meravigliosi: in ambito diagnostico e chirurgico, riabilitativo e assistenziale, con risultati straordinari.
È talmente importante questo orizzonte della tecnologia che una priorità dell’UE è la trasformazione digitale della società: le applicazioni future dell’I.A. potrebbero portare grandissimi cambiamenti in tutti i settori della pubblica amministrazione. Non a caso, una buona parte del Pnrr europeo è stato destinato a questo fine.
Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Tomasi, docente di Informatica presso l’Università di Pisa.
Cominciamo con la transizione digitale: a che punto è nel nostro Paese?
«Dal punto di vista tecnologico e delle competenze scientifiche siamo in linea con i Paesi più avanzati, anche se spesso i nostri ricercatori e ricercatrici migliori devono emigrare per trovare proposte e finanziamenti significativi, per ottenere risultati di eccellenza. Accanto alle più famose e celebrate Fabiola Giannotti, Samantha Cristoforetti e Ilaria Capua, per limitarsi a persone “del settore”, penso a Francesca Rossi, che vive negli Stati Uniti e lavora al centro Ricerche T.J. Watson dell’ Ibm, dove è responsabile (Global leader) del settore Etica dell’ I.A., nominata presidente dell’Associazione per l’Avanzamento dell’ Intelligenza Artificiale; Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford, dove è direttore del Digital Ethics Lab. Siamo invece in ritardo in tutto ciò che richiederebbe l’impegno “di sistema”. È il sistema Italia che è ancora affaticato e rimane indietro, nelle sue strutture scolastiche, amministrative, legislative, nella capacità di fare scelte e investimenti di rilievo strategico, e di inserirsi nelle collaborazioni internazionali, sempre più necessarie».
È la burocrazia… il solito ostacolo?
«C’è una burocrazia che frena, una legislazione che non comprende i fatti tecnologici, cadendo spesso in due errori simmetrici: quello di sopravvalutare la tecnologia, come se non ci fosse bisogno di un lavoro progettuale e realizzativo per dare concretezza alle idee tecnologiche, e quello di ritenere che basti disporre per legge qualcosa, per far sì che si attui. Infine, l’opinione pubblica: è ancora poco informata e non avverte i notevoli effetti che la tecnologia ha e avrà sempre più sulle nostre vite».
Quali sono le novità più interessanti, da un punto di vista economico, sociale e culturale, che questa ci prospetta?
«Lo abbiamo in parte constatato negli ultimi due anni: la disponibilità di servizi pubblici e lo svolgimento di molte attività quotidiane attraverso la rete, riducendo la necessità di spostamento. La gestione personale degli aspetti logistici migliora, ma si perde in socializzazione e si rischia di vivere perennemente “connessi e isolati”. Un fenomeno che colpisce in maniera particolare i giovani, acuito dal periodo di isolamento a cui siamo stati tutti sottoposti durante la pandemia. Ma, per quanto riguarda i giovani, un fenomeno che accompagna da anni la loro esperienza nella rete. In occasione del Safer Internet Day 2022, è stata resa nota un’indagine che attesta che nel 2021 un ragazzo su 10 è permanentemente connesso in rete e 2 su 5 lo sono per un periodo superiore a 5 ore al giorno. Il tempo medio trascorso in rete è di 3 ore e mezza al giorno nella fascia tra i 18 e i 24 anni».
Perché le persone si rivolgono con tanta fiducia alle macchine dotate di intelligenza artificiale?
«Perché la diffusione della tecnologia è stata così veloce e pervasiva in ogni settore della vita quotidiana che non ne possiamo più fare a meno. La presenza costante della tecnologia in ogni nostra attività, la crescente complessità dei problemi da affrontare e la consapevolezza dei limiti e delle fragilità della nostra natura umana, ci hanno abituati a pensare che l’ I.A. sia meglio dell’uomo, che gli algoritmi facciano i calcoli più in fretta e prendano le decisioni in maniera più razionale e oggettiva, con meno parzialità e facendosi meno influenzare da aspetti soggettivi come succede alle persone. Ma si dimentica che gli algortimi “incorporano” i criteri di decisione che il programmatore ha scritto e che potrebbero essere deformati da pregiudizi, inavvertiti o intenzionali».
Quali sono i rischi più significativi?
«Gli algoritmi di I.A. si basano su classificazioni predisposte dagli uomini e, molto spesso, in tali classificazioni si trasferiscono pregiudizi e stereotipi di chi le ha prodotte. Per fare un esempio banale, ma espressivo (e realmente accaduto): se si usa un sistema di I.A. per esaminare i curriculum e selezionare gli aspiranti a essere assunti in una azienda, occorre “tarare” il sistema facendogli analizzare migliaia di curriculum e di dati sulle assunzioni negli anni precedenti. Se in quella azienda ci fosse stata una prevalenza di assunzioni maschili, il risultato sarebbe che l’algoritmo di scelta si orienterebbe preferibilmente su curriculum di uomini, trascurando le donne. In altri casi, il “pregiudizio” degli algoritmi potrebbe essere perfino più problematico, come avviene nell’associare agli algoritmi di riconoscimento facciale la classificazione di aspetti legati all’identità personale, trasferendo sul piano del giudizio analisi che dovrebbero rimanere puramente descrittive».
L’humanitas, così come l’abbiamo ereditata dalla cultura umanistica, sembra sempre di più un dato antropologico mutevole dell’essere pensante. Secondo Lei in un futuro molto prossimo, potremmo perdere tratti della nostra umanita’?
«È un dibattito aperto, che vari esperti risolvono in maniera opposta: ci sono studiosi, come il sociologo della comunicazione DeKerchove, o il pedagogista Prensky, che ritengono che gli esseri umani con la tecnologia potenzieranno le loro capacità intellettive e acquisiranno una crescente disponibilità di tempo libero, da usare in maniera creativa dando vita a un nuovo Rinascimento. E ci sono molti che mettono in guardia sull’influsso che l’ambiente digitale produce sulle modalità di apprendere, di conoscere, di entrare in relazione, modificando i nostri comportamenti e il nostro stesso modo di essere. Il filosofo Floridi, che indaga gli effetti delle tecnologie digitali, mette in guardia dal rischio che il mondo tecnologico ci induca ad adattare alla tecnologia i nostri comportamenti, poiché questa diviene la via migliore o la più facile o, talora, l’unica praticabile, per far funzionare le cose. Lo scrittore Baricco, nel suo fortunato libro The Game, auspica che la tecnologia non solo sia un prodotto delle capacità umane, ma che si adatti agli esseri umani. Secondo Baricco, la tecnologia ha bisogno di umanesimo, ma è l’umanesimo che in un certo modo si deve “aggiornare” per essere all’altezza delle sfide tecnologiche.
Certamente la sfida del futuro consiste nello sviluppo di una riflessione multidisciplinare e interdisciplinare, per far sì che l’umanità venga arricchita dal progresso digitale, indirizzandolo al bene dell’umanità intera e delle singole persone ed evitando che gli esseri umani si “disumanizzino” per adattarsi alle macchine». ◘
Di Daniela Mariotti